IL SENSO DEL DEBITO PECCATORI, EROI O INSOLVENTI CHE SUCCEDE A CHI NON PAGA?

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Il debito è dibattuto da almeno cinquemila anni. Per gran parte della storia – almeno la storia degli stati e degli imperi – gli esseri umani si sono sentiti dire che devono considerarsi debitori. Gli storici – in particolare gli storici delle idee – stranamente sono stati molto riluttanti ad affrontare le conseguenze di questa situazione, che più di ogni altra ha causato risentimento e sdegno perpetui. Dite alla persone che sono inferiori: sarà  poco probabile che ne saranno compiaciute, ma è sorprendente quanto di rado tale asserzione conduca a una rivolta armata. Dite alle persone che potenzialmente sono uguali, ma che hanno fallito e che non si meritano neanche quello che hanno, al punto che non è più nemmeno loro: sarà  più facile alimentare la loro rabbia. Ce lo insegna la storia. Da migliaia di anni, la lotta tra ricchi e poveri prende la forma del conflitto tra debitore e creditore: contese tra i pro e i contro del pagamento degli interessi, schiavitù da debito, cancellazione del debito, restituzione, ripresa di possesso, confisca dei greggi, sequestro dei vigneti, riduzione in schiavitù e vendita dei figli del debitore. Analogamente negli ultimi cinquemila anni le insurrezioni popolari sono cominciate regolarmente nella stessa maniera: con la distruzione rituale dei registri del debito, siano stati tavolette, papiri o libri mastri, a seconda del periodo storico (dopodiché, di solito, i ribelli hanno dato la caccia ai registri di proprietà  della terra e delle tasse). Come piaceva dire al grande classicista Moses Finley, tutti i movimenti rivoluzionari del mondo antico avevano un unico programma: «Cancellare il debito e redistribuire la terra».
Analizzare questa prospettiva pone in posizione privilegiata perché ci permette di considerare quanto del nostro linguaggio morale e religioso sia originariamente emerso proprio da questi conflitti. Termini come “pagare il fio” o “redenzione” sono i primi che vengono in mente, presi direttamente dal linguaggio dell’antica finanza. In senso più ampio, si possono trovare origini simili per espressioni come “colpevolezza”, “libertà “, “remissione” e addirittura “peccato”. Le ragioni del debito hanno giocato un ruolo centrale nel dare forma al nostro vocabolario elementare di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Il fatto stesso che gran parte di questo linguaggio sia stato plasmato da discussioni sul debito lascia il concetto stranamente incoerente. In fondo, per litigare con il re bisogna usare il suo linguaggio, indipendentemente dal fatto che le premesse del discorso siano ragionevoli.
Se si guarda allora alla storia del debito, quel che si scopre innanzitutto è una profonda confusione morale. Il primo elemento che balza agli occhi è che quasi ovunque la maggior parte delle persone sostiene nello stesso tempo che (I) restituire il denaro che si è preso a prestito è una questione di semplice moralità  e (II) chiunque abbia l’abitudine di prestare denaro è empio.
D’altra parte guardando alla letteratura mondiale, è quasi impossibile trovare una sola rappresentazione empatica di un prestatore di denaro, o almeno di un prestatore professionista, ovvero per definizione qualcuno che si fa pagare gli interessi. Non sono sicuro che esista un’altra professione con un’immagine pubblica tanto negativa. 
Da un punto di vista storico, ci sono solo due maniere efficaci con cui un prestatore possa cercare di sfuggire al pubblico disprezzo: scaricare la colpa su una terza parte oppure sostenere che il debitore è anche peggio. Nell’Europa medievale, per esempio, i signori sceglievano spesso la prima ipotesi, impiegando gli ebrei come propri delegati. Li chiamavano addirittura “i nostri” ebrei, a indicare che si trovavano sotto la loro personale protezione, sebbene di fatto questo volesse dire soltanto che avevano previamente tolto agli ebrei ogni altro modo per sopravvivere che non fosse la pratica dell’usura (con la garanzia di essere disprezzati da tutti). A ogni modo, periodicamente i signori se la prendevano con gli ebrei e tenevano tutti i loro soldi per sé. La seconda ipotesi è più comune, ma porta a concludere che entrambe le parti contraenti un prestito siano egualmente colpevoli: l’intera faccenda è un business meschino e probabilmente entrambe sono destinate alla dannazione.
Altre tradizioni religiose hanno prospettive diverse. I codici legali del Medioevo indù ammettevano i prestiti a interesse (a condizione che l’interesse non superasse il capitale prestato) e mettevano in rilievo che se un debitore non pagava, alla successiva reincarnazione sarebbe rinato come schiavo del suo creditore (o, secondo i codici posteriori, come il suo cavallo o bue). In molte correnti buddiste riappare lo stesso atteggiamento tollerante verso i prestatori di denaro, con conseguente avviso di karmica vendetta contro i debitori. Ma quando gli usurai si spingono troppo in avanti, appaiono le stesse storie che circolavano in Europa, con punizioni annesse. Ma allora come si risolve la faccenda? 
Le grandi tradizioni religiose si trovano in un modo o nell’altro in imbarazzo su questo problema. Da un lato, nella misura in cui tutte le relazioni umane implicano un debito, gli attori coinvolti sono moralmente compromessi, entrambi colpevoli per il fatto stesso di essere entrati in relazione (come minimo corrono il rischio di diventare colpevoli se c’è ritardo nel saldo del debito). D’altro canto, quando diciamo che qualcuno agisce «come se non dovesse niente a nessuno», difficilmente ci riferiamo a un esempio di virtù. Nel mondo secolarizzato, moralità  significa adempiere ai propri doveri verso gli altri, e noi abbiamo sviluppato una cocciuta tendenza a immaginarci questi obblighi come debiti. Forse i monaci possono evitare il dilemma separandosi completamente dal mondo secolare, ma noi siamo condannati a vivere in un universo che non ha troppo senso.
Nelle storie tramandate dalle tradizioni ci sono forme di giustizia poetica, in cui il creditore è obbligato a provare le stesse sensazioni che i debitori provano sempre, come la degradazione e la disgrazia. Si tratta di una maniera più viscerale e vivace di porre la solita domanda: «Chi deve cosa e a chi?».


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