L’appello di Chen al Congresso Usa “Voglio vedere Hillary, aiutatemi” drammatica telefonata da Pechino

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PECHINO – Da recluso in casa, a ostaggio in ospedale. Chen Guangcheng formalmente è un libero cittadino della Cina. A quasi due settimane dalla sua fuga-beffa, uno dei dissidenti-simbolo della lotta contro corruzione e abusi del partito comunista cinese, resta però isolato dal resto del mondo. Una solitudine che riesce a rompere solo per pochi istanti nel cuore della notte cinese, riuscendo a telefonare dall’altra parte dell’oceano al deputato Chris Smith, che trasmette in diretta la sua voce nella Camera dei Rappresentanti Usa. Chen conferma ai deputati del Congresso di temere per la propria vita, per l’incolumità  della sua famiglia, della madre e del fratello. «Voglio incontrare Hillary Clinton – il disperato appello – e ottenere asilo negli Stati Uniti». Il colpo di scena mette Barack Obama con le spalle al muro e chiude un’altra giornata drammatica a Pechino. 
L’ospedale di Chaoyang, il quartiere di della capitale dove Chen è ricoverato da mercoledì, è circondato da agenti e uomini dei servizi segreti in borghese. Solo i funzionari cinesi possono parlare con l’ospite, tacendo e filtrando il suo pensiero. Bloccati, perquisiti e privati dell’accredito giornalisti e fotografi che cercano di avvicinare il nuovo eroe del dissenso cinese, prigioniero ora dei contrapposti interessi politici di Pechino e di Washington. Fermati anche i diplomatici Usa, che hanno perso il contatto con l’uomo che aveva chiesto loro aiuto. 
Dal corridoio vip, a metà  mattina Chen viene trasferito nel reparto di ortopedia, nell’edificio G, piantonato dai militari cinesi. La sua figura piegata, vestita di nero, transita davanti ad una finestra affacciata sul cortile. Due infermiere in camicie bianco spingono la sedia a rotelle, seguite da un corteo di uomini in giacca e cravatta. Chen fa un cenno con la mano, quasi volesse chiamare qualcuno lontano. Non c’è traccia della moglie e dei figli. La frattura a un piede, ricordo del salto dal muro di cinta della sua casa-prigione nello Shandong, è il pretesto per prolungare la degenza e vietare le visite. La sua volontà  di fuggire dalla Cina e di trovare un rifugio sicuro all’estero è però più forte del surreale isolamento in cui lo costringono la repressione cinese e il bisogno americano di rimanere sul treno della crescita economica di Pechino. 
Tutto è cambiato in poche ore e Chen, che fino all’altro ieri aveva ripetuto di voler «rimanere a lottare in Cina», spera che oggi possa essere l’ultimo giorno trascorso in patria. All’inviato di Barack Obama, Kurt Campbell, ripete che la sua più grande speranza è «poter partire per gli Stati Uniti a bordo dell’aereo del segretario di stato Hillary Clinton, assieme alla moglie e ai due figli». Il volo è fissato tra poche ore, al termine del naufragato vertice strategico ed economico tra le due potenze. Le accuse contro la Casa Bianca sembrano frutto di un equivoco. Il difensore delle donne umiliate dagli aborti di Stato, vede nell’America la sola via verso la salvezza e le diplomazie di Pechino e Washington tornano a scontrarsi su una soluzione che non demolisca l’immagine dei rispettivi governi. Tre, secondo dissidenti vicini a Chen, gli scenari ipotizzati: l’asilo politico negli Usa, l’esilio in un Paese neutrale dell’Occidente, in prima fila la Norvegia, oppure la permanenza in Cina con la garanzia di studiare all’università  di Tianjin. L’ultima possibilità , scartata dalla moglie Yuan Weijing e dall’avvocato Teng Biao, è all’origine della crisi di mercoledì notte. L’ambasciatore Usa Gary Locke conferma che Chen ha lasciato la sede diplomatica americana «volontariamente», dopo che «tutto era pronto per ospitarlo anche anni». Nessuna pressione statunitense per salvare il dialogo Cina-Usa, ma il desiderio di ricongiungersi con la famiglia. Proprio questa però ha fatto cambiare idea al fuggitivo. «Gli abbiamo spiegato – dice il suo avvocato – che in Cina per un dissidente non esiste un luogo sicuro. Nessun Paese straniero può garantire nel tempo incolumità  e libertà  a chi denuncia i soprusi del partito. Yuan Weijing e i figli, dopo la fuga, sono stati picchiati e minacciati di morte. E’ stata la moglie a supplicarlo di metterli in salvo all’estero». L’appello a Barack Obama per salire sul volo di Hillary Clinton, innescando la peggiore crisi con la Cina dalla strage di Tiananmen, è il nodo che divide ora le due superpotenze. Pechino, dietro il «no comment» ufficiale, si oppone ad un asilo politico umiliante. Costituirebbe un precedente destabilizzante, riaprendo lo scontro esploso con l’epurazione di Bo Xilai. La Casa Bianca ha invece il problema di verificare se, come e quando Chen potrebbe riparare all’estero. Prende quota così l’ultima mediazione: un esilio non immediato, ma rinviato a un momento politico meno cruciale sia a Pechino che a Washington. Nel 1989 anche l’astrofisico Fang Lizhi chiese l’asilo, ma riuscì a partire per gli Usa solo l’anno successivo. Un’intesa per un addio freddo e programmato di Chen alla patria, solleverebbe Barack Obama e Hu Jintao dai pericolosi imbarazzi di transizioni non più scontate. I segnali di Pechino non autorizzano però l’ottimismo. Dopo He Peirong, mente della fuga di Chen, viene arrestata anche Zeng Jinyan, sua portavoce. Decine di amici, parenti e compagni di lotta di Chen risultano scomparsi. Hu Jintao, aprendo il vertice Cina-Usa, di prima mattina teorizza una nuova forma di intese tra super-potenze, per scongiurare «il consolidarsi di una sfiducia strategica»: partenariato cooperativo a prescindere dalle situazioni interne. Era la vecchia posizione di Hillary Clinton, votata alla necessità  del pragmatismo, costretta però ad aggiustare la mira: «Nessuna nazione – risponde subito – può negare l’aspirazione dei cittadini alla dignità  e allo stato di diritto». Il caso-Chen scuote la Casa Bianca, ma anche la leadership di Pechino vacilla. Dopo il Nobel Liu Xiaobo, sua moglie Liu Xia e l’archistar Ai Weiwei, la lista della vergogna cresce ormai più velocemente dell’economia. E un profeta cieco oggi fa vedere al mondo la montante fragilità  della potenza simbolo della vecchia democrazia, ma anche l’incertezza dell’icona del nuovo autoritarismo di successo


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