Levi, l’etica della memoria

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Il convegno si terrà  oggi a partire dalle 17 e vedrà  l’alternarsi di riflessioni (Belpoliti, Ponzani, Di Castro, Cortellessa, Pisanty) e letture di brani leviani (Rovelli, Carnelutti, Cruciani, Pavolini, Tedoldi, Soriga, Venitucci, Litwick, Lagioia), per concludere con la proiezione del documentario di Davide Ferrario e Marco Belpoliti La strada di Levi. L’idea non è tanto celebrare lo scrittore, a rischio di mummificarlo, ma immergere le sue opere nel nostro presente, come chiarisce Cortellessa quando scrive che l’incontro «non può essere inteso come una generica, ancorché condivisibile, posizione etica collocata nell’oggi… Quello che oggi mi pare più aperto al futuro riguarda proprio l’essere situato del nostro agire». 
Preme dire che in questo paese dove vige una ipertrofia della memoria (giornate delle vittime, della rimembranza, del ricordo se ne contano a decine) le riflessioni di Levi su «questo strumento meraviglioso ma fallace» suonano profondamente politiche e lontane dall’immagine comune dello scrittore torinese. Quando Levi scriveva I sommersi e salvati aveva davanti a sé due fenomeni fondamentali, distinti e connessi: la progressiva scomparsa dei testimoni diretti e le diverse forme di negazionismo. La scelta leviana di lotta al negazionismo e di cura verso l’usurarsi della memoria stupisce, perché rifiuta la strada più facile: il semplice per quanto «tremendo» «io c’ero, io ho visto», ma sonda i modi e i significati in cui la memoria si fa racconto, diventa testimonianza e opera scritta.
Levi ricorda come tra i diversi gradi di annientamento previsti dal Lager c’era anche quello della memoria, che prevedeva una perdita di contatto con la realtà , fino a giungere al paradosso di negare la realtà , o di non essere creduti quando la si sarebbe raccontata. La memoria quindi ha un compito fondamentale, è uno degli atti attraverso cui l’uomo rimane tale (non a caso Levi si sente uomo e non «bruto» nel momento in cui riesce a rammemorare i versi di Dante). L’impegno deve essere affinché la memoria non diventi rito, ma bisogno etico e morale. Quando Levi parla di «testimone integrale», sempre ne I sommersi e i salvati, non indica solo il testimone che ha toccato il fondo e non può parlare, «il mussulmano», perché questo indicherebbe una sorta di eclissi della parola che lo scrittore non può accettare, ma tratteggia il ritratto del testimone come uomo retto e integro, consapevole dei suoi limiti e dei difetti dei propri ricordi, che «non sono incisi nella pietra». Questa usurabilità  della memoria, che la rende «una fonte sospetta» ma necessaria, apre alla possibilità  che la testimonianza non si concluda con il testimone, ma possa in certo senso emanciparsi da lui e trovare altri canali di espressione, romanzi o opere di finzione. Le parole di Levi suonano quindi come una delega, la stessa scritta in una poesia in cui s’invita un giovane a non spaventarsi «se il lavoro è molto:/c’è bisogno di te che sei meno stanco». Un appello a raccogliere la staffetta, che gli scrittori e gli intellettuali di Roma memoria hanno fatto proprio.


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