Se la Sicilia è ancora quella di Falcone

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Con il neosindaco Leoluca Orlando che, quando ci fu la strage, aveva già  terminato il suo primo mandato e aveva appena accusato il suo ex amico Falcone di tenere «nascoste nei cassetti» le prove dei rapporti tra mafia e politica; «forse sbagliai i toni», s’è limitato ad ammettere durante la campagna elettorale che l’ha riportato alla guida del Municipio per la quarta volta, con un plebiscito.
La Sicilia intera è ancora qui. Con il presidente della Regione Lombardo prossimo alle dimissioni per meglio difendersi dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E il suo predecessore, Salvatore Cuffaro, rinchiuso nel carcere di Rebibbia a scontare sette anni di pena per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra.
Anche il palazzo di giustizia è ancora qui. Lo stesso dove Falcone lavorò finché fu costretto ad andare a Roma, al ministero della Giustizia, perché non lo facevano più indagare sulla mafia e le sue ramificazioni come avrebbe voluto. Di diverso c’è un parcheggio sotterraneo, inaugurato il giorno in cui agli amministratori della ditta che l’ha costruito fu notificata l’accusa di corruzione. Dentro, nell’aula magna del primo piano, si svolge la commemorazione della strage organizzata dall’Associazione nazionale magistrati, alla presenza del ministro Guardasigilli Paola Severino. 
È qui che Alfredo Morvillo ricorda come i problemi di allora siano gli stressi di oggi: «Paolo Borsellino invitava la politica a fare pulizia al proprio interno senza sbandierare certe assoluzioni e archiviazioni come fossero patenti di purezza d’animo, quando non lo sono affatto». In vent’anni non è cambiato niente, insiste, «e visto che i codici etici non funzionano sarebbe bene che il governo intervenisse con provvedimenti su incompatibilità  e decadenze. Per non ritrovarci tra vent’anni a ripetere le stesse cose». 
Ad ascoltarlo ci sono tanti magistrati che applaudono. Molti sono giovani, molti altri anziani. Chissà  quanti di loro, nel 1990, votarono per portare Falcone al Consiglio superiore della magistratura. Si candidò ma raccolse pochissimi consensi nella sua stessa categoria. Non fu eletto. Prima, lo stesso Csm gli aveva negato la nomina a consigliere istruttore. Gian Carlo Caselli, che di quel Consiglio faceva parte e fu sconfitto, ricorda «la protervia e l’arroganza della maggioranza dei miei colleghi del tempo che scelsero di mortificarlo». Caselli venne a guidare la Procura di Palermo dopo le stragi del ’92, e insieme ai suoi sostituti aprì la stagione degli arresti dei grandi latitanti di mafia, da Riina a Bagarella, da Giovanni Brusca a tanti altri. Ottennero centinaia di ergastoli contro la mafia militare; aprirono la stagione dei processi ai politici presunti collusi, da Andreotti in giù, che non ebbe altrettanto successo.
Ad ascoltare Caselli c’è il presidente del tribunale che assolse Andreotti in primo grado (in appello, per una parte, il reato fu dichiarato prescritto), accanto ai giudici che hanno condannato Dell’Utri e molti altri colleghi che su politici e rappresentanti delle istituzioni hanno emesso verdetti altalenanti. Suscitando ogni volta polemiche e accuse: della politica verso la magistratura e all’interno della stessa magistratura. Anche a Palermo, dove le toghe erano divise al tempo di Falcone e Borsellino e sono tornate a dividersi qualche anno dopo le stragi, sulle diverse strategie investigative. Ciascuno rivendicando per sé il «metodo Falcone». 
«Il bilancio di questi vent’anni è certamente positivo solo per quanto riguarda la repressione dell’ala militare di Cosa nostra», dice Nino Di Matteo, presidente dell’Anm palermitana e pubblico ministero dell’indagine sulla presunta trattativa fra Stato e mafia a cavallo degli attentati del ’92 e ’93. Solo per quella voce, però. Sui rapporti tra Cosa nostra e la politica, il bilancio è in rosso. Il contrasto alla mafia, denuncia Di Matteo, dovrebbe essere «una vera e propria lotta collettiva di liberazione». Viceversa, «al di là  delle parole, della retorica e della disinvolta e ingiusta rivendicazione di inesistenti meriti da parte della politica, continua ad essere patrimonio di pochi giudici e appartenenti alle forze dell’ordine, spesso isolati».
Al tempo delle stragi Di Matteo era appena entrato in magistratura. Poi andò a Caltanissetta e sostenne l’accusa nei processi per la strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino; anche quelli che ora bisognerà  in parte rifare poiché le accuse di tre pentiti si sono rivelate false. Leonardo Guarnotta, invece, aveva lavorato al fianco di Falcone e Borsellino all’istruttoria del maxi-processo che ha fatto la storia dell’antimafia. Davanti al ministro della Giustizia ricorda anche lui l’evoluzione dei patti tra mafia e politica, prima e dopo il ’92. E conclude con un ammonimento: «La lotta alle mafie si combatte in Sicilia, in Calabria e in Campania, ma la vera guerra si vincerà  a Roma». Dov’era andato Giovanni Falcone, prima di essere ucciso. Vent’anni fa.


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