Volare a 300 all’ora a Indianapolis grazie all’ingegnere fortunato

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Le 500 miglia di Indianapolis sono una parola sola: il nome di un mito. Se sei un ragazzino europeo te lo porti dentro come una roba esotica di cui non ti è dato di sapere molto. Allevato a Formula Uno, ti riesce difficile capire cosa mai ci trovino gli americani in quella specie di ovale in cui macchine che non sono la Ferrari girano ossessivamente. Girano con la stessa logica imperscrutabile dei bambini dell’asilo in cortile, nell’ora di ricreazione. I nomi dei vincitori arrivano poco, nei giornali nostrani, e in realtà  neanche si capisce bene in cosa consista il gioco, quali siano le regole, e dove stia il fascino della cosa. Però si sa che quelle non è una gara: è LA gara. Ovvio che prima o poi ti venga da chiarirti le idee e così un giorno ho deciso che io, alle 500 Miglia di Indianapolis, ci sarei andato: ecco perchè, nei giorni in cui da noi si consuma il sofisticato e decadente rito del Gran Premio di Montecarlo, io invece, assurdamente, sono qui, nei 35 gradi dell’Indiana, in mezzo a 500 mila americani, tonnellate di cheeseburger, ettolitri di birra e 101 anni di mito indiscusso. Sono venuto per capire. E per allungare la mia collezione di gesti snob, è ovvio.
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Per entrare nei miti il segreto è trovare la porta giusta. Io, nella circostanza, ho avuto fortuna. Avevo sentito questa strana storia: che l’anno scorso, alla partenza della 500 Miglia si erano schierate, come al solito, 33 macchine: la cosa strana è che macchine erano: tutte Dallara. Ora, per uno che è stato allevato a Formula Uno, la cosa può significare solo due cose: o che sono tutti scemi o che questo signor Dallara è un fenomeno. Così ho preso la mia, di macchina, e sono salito dalle parti di Parma, dove son finto in uno di quei pezzetti di Italia che mi affascinano e che trovo, per ragioni che non so definire, struggenti. E’ che incroci mucche al pascolo, poi quelle misteriose fabbrichette dove fanno cose tipo intonaci ma li fanno anche per Dubai, poi incroci ordinate casette dipinte inspiegabilmente di giallo limone; al bar dipende dai tavoli, o vecchietti che sacramentano in dialetto, o lolite in attesa che passi il reclutatore del Grande Fratello. Ogni tanto c’è un negozio di abbigliamento con nomi tipo Beverly Hills, ma c’è sempre qualche ipsilon nel posto sbagliato, o di troppo. Quei mondi lì. Me la stavo godendo, quando, girata una curva, ecco la Dallara: una palazzina uffici, due hangar e, preso in mezzo, un misterioso casolare splendido, vecchio, ma mezzo crollato, come paracadutato lì da un cielo i cui non c’era più posto. Cioè, a dire il vero, era proprio tutto quanto che sembrava paracadutato in quella campagna per ragioni inesplicabili. Ora so che da lì escono macchine da corsa per tutto il mondo, perché questa gente, meglio di chiunque altro, sa costruire qualcosa che vada veloce da pazzi e che, pure, inspiegabilmente, stia attaccata per terra. La stessa cosa che, volendo, ci si augurerebbe a proposito del nostro semplice, quotidiano, stare al mondo.
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Il signor Dallara esiste veramente ed è un ingegnere apparentemente pacifico che ha iniziato alla Ferrari quando io ero ancora ai pannolini (miei, non dei miei figli). Adesso fa il nonno, non perde una partita del Parma, va a sentire l’Opera al Regio e soprattutto tiene insieme un’azienda modello che in fatto di materiali, tecnologia e aerodinamica dà  la birra a tutti (i motori non li fanno, non è roba loro). Il suo segreto: una fortuna bestiale, dice lui, usando un eufemismo. L’innovazione continua e ossessiva, ho capito io, vedendo i suoi uffici pieni di giovani e computer. Visitata la loro galleria del vento, e lo spettacolare simulatore in cui tutti i piloti del mondo vengono a studiare i circuiti (una specie di ragno fantastico, nel nero di un hangar spaziale) mi son fatto la domanda che ultimamente mi faccio spesso, e cioè come diavolo possa accadere che un Paese con gente così rischi di fallire. Ma che classe politica deve avere per ottenere un risultato così illogico? Va be’, lasciamo perdere.
Lavorano, comunque, sul futuro, sempre e ossessivamente. A un certo punto ho chiesto all’ingegnere cosa stanno studiando adesso, qual è il next step. Senza perdere la calma mi ha spiegato che stanno cercando di entrare nella testa dei piloti. Cioè, stanno cercando di capire come funziona il loro cervello quando decidono di spingere la macchina fino al limite: lì inizia una terra di nessuno in cui, sapendo intuire dove arriva l’immaginazione di un pilota, si potrebbe provare a mettergli tra le mani una macchina capace di tradurre in realtà  le sue visioni. Ma guarda, ho pensato, lo stesso problema che abbiamo quando facciamo film. Ma non gliel’ho detto perché nel frattempo avevo deciso di farmi spiegare da lui quella storia delle 33 macchine tutte col suo nome: ma no, niente, dice lui, il fatto è che lì è tutto diverso, l’idea è di mettere i piloti tutti nelle stesse condizioni, quel che gli piace è la sfida tra i piloti, quindi vogliono una macchina più o meno uguale per tutti: fanno una specie di gara d’appalto e chi gli porta la macchina migliore vince: è solo che noi abbiamo vinto. Poi mi ha portato ad assaggiare un parmigiano che fanno a Bardi, ineguagliabile: è gente così. Italiani.
Da lì in poi ho iniziato a capire che il gioco, a Indianapolis, è davvero diverso. Mi sembrava un po’ ottuso quel girare sempre da una parte, in quella specie di anello, dove sta il problema? Sintetico, l’ingegner Dallara mi ha spiegato che lo fanno per più di due ore, a una media di 360 chilometri all’ora, sfiorandosi manco fossero le Frecce Tricolori, in una fornace circondata da 400 mila spettatori urlanti e birrificati. Se vanno lunghi trovano un muro, niente vie di fuga. Il freno lo usano solo per entrare ai box e per fermarsi alla fine. Le sembra così facile?, mi ha chiesto. Adesso meno, ho risposto. Infatti, ha concluso. Ma se viene con me a Indianapolis, ha aggiunto, le faccio fare una cosa che la convince definitivamente. D’accordo, ho detto, ingenuamente.
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Così un paio di settimane dopo mi son trovato sulla pista di Indianapolis, alle sette del mattino, piuttosto elegante nella mia tuta da pilota, seduto in una biposto Dallara, dietro a Mario Andretti, al volante (lui, grazie a dio). Ora, Mario Andretti non è uno qualunque: è uno che ha vinto tutto, e stato uno dei pochissimi a vincere sia in Formula Uno sia qui a Indianapolis. E’ come vincere il Nobel per la letteratura e anche per la chimica. Lo dico per chiarire che io mi sarei emozionato anche solo a sedermi al bar, con Mario Andretti. Invece adesso era lì al volante, e stava per farmi fare qualche giro di Indianapolis. La vita è strana, mi son detto, augurandomi che non finisse lì. Lui è partito, con un’accelerazione che mi ha ridisegnato gli interni, e poi con lui ho veleggiato sopra i trecento all’ora, nel ventre di uno stadio immane completamente vuoto, nella luce dell’alba, con il muretto che mi strisciava di fianco, la pista stretta come una tagliatella grigia e un motore che mi cantava note mai sentite nella nuca. Ci tengo a dire che quando si entrava in curva, a quella velocità , il fatto di rimanere attaccati alla terra mi è sembrato ogni volta un fenomeno inspiegabile e contronatura: è bello pensare che invece accade regolarmente ogni volta, e questo grazie al lavoro di quelli là , tra le mucche e i negozi Beverli Hylls.
Quando sono sceso, avevo effettivamente formalizzato il concetto che adesso condivido con questi 500 mila americani che mi circondano, in un’orgia di pance, hot dog, infradito rosa e sorrisi da ragazzi eterni: ma cos’è ‘sta fighetteria della Formula Uno?
Forti di questa domanda retorica ce ne stiamo qui, io e loro, nei 35 gradi dell’Indiana, a sette ore dal momento ci cui sapremo chi ha vinto, quest’anno, la gara più bella del mondo


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