Il Faulkner greco e la vita oltre la fine (dei bancomat)

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Sono mesi che guardiamo alla Grecia nel tentativo di leggere (e scongiurare) il nostro futuro prossimo. Si tratta di un’osservazione non senza ostacoli anche di ordine emotivo: gli economisti simulano pubblicamente il terrificante effetto domino che potrebbe innescare l’abbandono dell’euro da parte di Atene, mentre le istituzioni invitano alla solidarietà  continentale parlando una lingua che rischia spesso di cementare la distanza. Così, se vogliamo una finestra aperta sulla crisi che generi empatia prima che panico o qualunquismo, è alla letteratura che dobbiamo rivolgerci ancora una volta.
Qualcosa capiterà , vedrai, di Christos Ikonomou (Editori Internazionali Riuniti, 224 pp., 15 euro) è una delle più toccanti cronache sulla recessione che sia dato di leggere da quando la Grecia è diventato il piano inclinato verso cui rischiamo di scivolare. Organizzato come un arcipelago di racconti comunicanti tra di loro (spesso il protagonista di una storia fa capolino nella successiva), il libro dà  voce alle vittime del debito sovrano: disoccupati, famiglie senza casa o decimate dalle morti bianche, ex attivisti politici alle prese con un mondo divenuto incomprensibile. Si potrebbe pensare che un filo leghi tematicamente queste storie alle grandi narrazioni del-
la Depressione, da Faulkner e Steinbeck in giù. Ma le cose stanno in maniera diversa. Lì era un mondo rurale e non di rado aristocratico a fare i conti con le proprie macerie. Qui va in scena il dramma della classe media cui crolla sotto i piedi la piattaforma di garanzie, diritti e giustizia sociale che si era data per scontata. I bassifondi della crisi si aprono in questo modo su un mondo completamente nuovo, dove la minaccia è scandita dagli avvisi delle banche mentre un crepuscolare quadro urbano è rischiarato da bancomat che all’improvviso rifiutano le nostre tessere magnetiche. Le storie d’amore finiscono il giorno in cui si decide di derubare il partner di una somma ridicola fino a pochi mesi prima (“800 euro, quasi 900”) e la morte di un genitore diventa una gara a tempo per pagarne i funerali. Il tutto, senza il sostegno del dio ucciso nel secolo passato e con in bocca il balbettio di una lingua (quella del sindacato, del partito, dell’assistenza sanitaria o pensionistica) che non apre più alcuna serratura.
A voler fare il gioco delle differenze tra noi e gli eroi di Ikonomou, ci accorgiamo che la prima vittima della crisi nel suo massimo epicentro è il narcisismo. Il misero lusso con cui ancora travestiamo la vergogna – cattiva eredità  – del perdere continuamente posizioni, è assente nei racconti dello scrittore greco. Tutto è ridotto all’osso della lotta per la sopravvivenza. Sembra di muoversi in un Ottocento tecnologico che non senta più alle spalle la spinta del 1789 e non veda all’orizzonte una “primavera dei popoli”. Eppure, nel nuovo contesto in cui si svolge la lotta tra civiltà  e barbarie, non ci sono solo ombre. Se il pericolo maggiore è che, vaporizzata la coscienza di classe, le difficoltà  scatenino una definitiva guerra fra poveri, chi non si fa distruggere dallo sconforto conserva intatto il proprio nucleo irriducibile. Ad esempio tornando a raccontare storie. Ecco la prima vittoria etica di Ikonomou. L’indistruttibilità 
dell’uomo (questa sì davvero faulkneriana) viene testimoniata in un racconto dove cinque anziani, stanchi e malati, si ritrovano di notte fuori da un poliambulatorio nella speranza di ricevere i farmaci di cui hanno bisogno prima che vadano esauriti. Per non soccombere al freddo accendono un fuoco come in un racconto di Jack London. E intorno al fuoco, per ricevere conferma della propria dignità  di specie, raccontano storie. In un altro racconto, una donna che ha rimproverato a suo marito di non avere più niente, neanche i soldi per la gita in barca che le aveva promesso, si pente e ci ripensa: «Non intendevo questo. Che non hai niente. Hai una bella parlantina. E fantasia. Avanti, allora, ti ascolto. Che barca sarebbe questa?» Il secondo merito di Ikonomou (che usa una lingua sghemba e povera di mezzi proprio come i suoi protagonisti) è considerare il potere osceno in senso etimologico. I potenti nella sua raccolta non sono rappresentati. E questo non per consumare una vendetta o per ricompensare ingenuamente gli sconfitti. Proprio come nella
Storia della Morante (o nel vertiginoso paradosso di Primo Levi che riteneva i testimoni più attendibili quelli che dal disastro non erano tornati, o che erano tornati muti), Ikonomou assegna ai perdenti il massimo valore conoscitivo. In certi casi, addirittura, le difficoltà  trasformano i personaggi dei suoi racconti in una strana razza di veggenti. Come l’uomo che, morta l’amata moglie, invita suo figlio a bruciare le vecchie lettere di lei per conservarne il ricordo, poiché in un futuro dove «tutto sarà  archiviato dai computer» il tempo stesso rischierà  di collassare: «pensaci. La memoria senza vuoti non è memoria. È morte. Esci fuori e bruciale. Bada solo a non sporcarmi i panni».
Se il centro del potere è come l’occhio di un ciclone (fermo e inabitato) chi porta addosso le stimmate del proprio tempo è colui che meglio può farcelo indagare. Ascoltare i vinti servirebbe a chi sta ancora a galla per capire che non si salverà  da solo.


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