Le tecnologie dei cattivi discreti

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«Tutto dipende dall’innesco». A poco più di una settimana dall’attentato di Brindisi sembra che solo dall’innesco si possa capire se l’ordigno ferocemente rudimentale piazzato di fronte alla scuola Falcone Morvillo dovesse esplodere proprio a quell’ora. Alle 8 meno un quarto, nel momento esatto in cui Melissa Bassi e Veronica Capodieci stavano facendo il loro ingresso a scuola. Un timer azionato o un tasto premuto. Ci si chiederà : cosa cambia di fronte a una trama che riporta sempre a un gesto deliberato, a un atto concepito e realizzato da una mano umana? Poco, nulla rispetto al vuoto. Probabilmente, solo la possibilità  di capire se si è voluto davvero uccidere, se in qualche modo si è deciso che per qualcuno, per una, due giovani vite, tutto potesse finire in quell’attimo, o se invece la fine è stata «casuale», tanto agghiacciante quanto accidentale. Due diverse strade per un disegno che, aldilà  della strategia, della ratio, sembra precipitare in un ambito oscuro in cui il linguaggio esita, suggerendo una parola cumulativa: male. Ma che cos’è e dove si innesca ciò che con una plateale scorciatoia chiamiamo «il male»? Ha ancora senso parlarne così?

Il volto di Medusa
Al di là  della portata esistenziale, la domanda riguarda la possibilità  di continuare a riflettere sul significato politico del male, sui suoi molteplici inneschi, pur sapendo che «molti concetti usati per pensarlo sono diventati inservibili». Parte da qui I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere (Feltrinelli, pp. 399, euro 35) di Simona Forti, un’esplorazione densa e articolata delle nuove fenomenologie del male, radicata però in una fitta trama genealogica. Messa tra parentesi ogni pulsione metafisica, ogni idea sostantiva del male come essenza o entità  ontologica, si tratta comunque di un libro di etica: un’etica immanente («un modo di darsi della soggettività  che non rimanda a un aldilà  dei luoghi e dei tempi delle vite singolari») il cui ritorno, perentorio quanto problematico, può essere ricondotto alla pubblicazione degli ultimi due corsi di Michel Foucault al Collége de France, Il governo di sé e degli altri e soprattutto Il coraggio della verità . Del resto proprio Foucault, accanto a Nietzsche e Hannah Arendt, sembra essere la principale guida nel viaggio tra i nuovi demoni intrapreso da Forti. Tesi di fondo è che lo spazio esclusivo di un male radicale e assoluto risulti oggi quantomeno fuorviante, e il paesaggio contemporaneo si riveli invece popolato da demoni discreti, mediocri, verosimilmente polimorfi e soprattutto obbedienti. Non si tratta tanto di dubitare dell’esistenza di quella Medusa (il male come frutto avvelenato o effetto collaterale della libertà ) che Kant presagisce ma non può guardare negli occhi, dell’idea terrificante che se anche il cielo stellato mi sovrasta la legge morale non è detto che mi abiti. Il problema riguarda semmai l’inevitabile riduzione di complessità  in cui precipita ogni tentativo di dare un volto alla Medusa. Perché assegnare un nome e un volto al male, sulla base di una pulsione di morte, di una volontà  del nulla, corre il rischio di perdere di vista la zona grigia in cui il male produce e si riproduce. 
Forti riconduce questa tendenza a impersonare e assolutizzare il male nell’alveo di un «paradigma Dostoevskij», un filo rosso che va da Stavrogin alla più complessa figura-limite dell’Inquisitore nei Karamazov. E a quella dimensione antropomorfa e più o meno dicotomica affianca e progressivamente oppone una condizione plurale, anonima e capillare, ricentrando il discorso sul rapporto tra male e potere e rideclinandolo in termini remunerativi o, per dirla sempre con Foucault, «positivi». 

Volontà  di sopravvivenza
Contro l’eccezionalità  del male, la sua seduttività  magnetica, e contro ogni opposizione binaria, emerge allora una più problematica e disseminata anonimità , un grigiume diffuso e soprattutto produttivo. E qui convergono le riflessioni di Arendt sulla normalità  del male negli «editoriali» del processo Eichman, la terribile «zona grigia» che affiora nelle pagine di I sommersi e i salvati frantumando ogni rassicurante immagine in bianco e nero di vittima e carnefice, e la dimensione relazionale che scaturisce dall’analitica del potere foucaultiana. Perché, se è vero che Foucault non suggerisce mai un’identificazione del potere con il male, tra i due termini sembra instaurarsi una stessa economia posizionale. Come il potere, il male politico risponde a logiche di massimizzazione, circola in uno spazio incrementale, è moneta che crescit eundo. Per questo, al pari del potere, allude a qualcosa di «creditizio» e affermativo, realizzandosi nel fare per lo più passivo di soggetti obbedienti.
Forti delinea così i contorni di un male biopolitico, privato di ogni pulsione nichilista, che diventa il supplemento, complementare e parassitario, di un potere incentrato sulla vita. Ne emerge un paesaggio a un tempo impersonale e normativo, per certi versi stabilizzato, che lavora su un’indifferenziata volontà  di sopravvivenza: una sopravvivenza a tutti i costi che costituisce il filo rosso di molta storia novecentesca. E tuttavia, proprio in questo nesso diretto con la vita, rispetto a letture che a partire da Foucault saldano il biopotere a una politica di morte, il rapporto male/potere sembra oggi incontrare un punto di rottura e quel filo rosso incrinarsi. Se, proiettata sul Novecento, la volontà  di sopravvivenza la si è potuta in qualche modo leggere in funzione di una logica biopolitica che esasperava la massimizzazione della vita (trovando quindi un rovesciamento speculare in una morte necessaria e funzionale all’esistenza del popolo), oggi anche questa dimensione deliberata pare smarrirsi. E il male, ciò che chiamiamo male, più che rispondere a una logica sovrana che «fa morire» si realizza soprattutto attraverso anonime tecniche di governo che lasciano morire. Se davvero la normalità  del male indica una zona grigia in cui il male non è eccezione e non fa eccezione, ma come il potere è relazione, trama, azione che si esercita su azioni e determina i termini della relazione, la sua contabilità  macabra, la sua produttività , la si ritrova, per esempio, andando a perlustrare i fondali del Mediterraneo, nei naufragi con spettatori che scandiscono le notti di Lampedusa. 

Razionalità  governamentale
Morti della governance, si dirà . E cioè morti governamentali, diverse da quelle altrettanto anonimamente razziste immortalate nelle foto-ricordo scattate, come souvenir di viaggio, ad Abu Ghraib, al centro di un capitolo molto denso del libro di Forti. Per certi versi, la governance globale, che ammazza più di ogni evocato spettro sovrano, sembra suggerire l’esistenza di un male senza mandante, proceduralizzato (più ancora che biopolitico). Ha ancora senso chiamarlo male? In parte sì. Eppure, di fronte a questa dimensione impersonale e passiva, il risvolto complementare e negativo di tecnologie di potere altrettanto anonime, miste e «positive», l’impressione è che l’ancoraggio suggerito da Forti a un’idea anche immanente di male politico risulti in un certo senso parziale. Si è tentato di depersonalizzare il male rintracciando indizi nelle risposte di Eichman o significati acheropiti nell’ombra di Hiroshima, come se la bomba provenisse da un altro pianeta, finendo però per trovare sempre una decisione, una mano umana, un tasto schiacciato, un ordine eseguito. Vale ovviamente anche per Brindisi. 
Il fatto è che oggi, forse, quell’assenza sembra realizzarsi in uno spazio tutto negativo: in una non-azione che presuppone e produce anonimità , e che risponde a criteri quanto mai standardizzati e impersonali (la sicurezza, lo spread), imponendo soluzioni che appaiono ineludibili e altrettanto automatiche (il «governo delle migrazioni» o il fiscal compact). È qui che il problema del male sconfina nell’ambito decisamente meno categorizzabile del negativo, inteso sia come atto spersonalizzato, come un non fare, sia come principio di articolazione. E non è la stessa cosa, nella misura in cui il negativo, a differenza del male, revoca in dubbio ogni facoltà  di giudizio, e più che per opposizioni lavora sulle complementarità . Franà§ois Jullien ribadisce a modo suo questa distinzione: «il male è oggetto di giudizio, e questo ne sancisce in linea di principio l’esclusione; il negativo richiede una com-prensione ed è oggetto di integrazione». Al di là  del tono zen, è su questa articolazione che occorre insistere: integrando, e cioè recuperando, in una dimensione non necessariamente ricomponibile in uno schema esclusivo e binario, un gesto di rottura, un momento che disarticola, una controcondotta da opporre alle logiche remunerative, affermative, «positive» che Forti associa alle nuove fenomenologie di ciò che ancora chiama male. In questa prospettiva il negativo «comprende» perché risulta sia l’altra faccia, passiva, della razionalità  governamentale, sia lo scarto rispetto a questa remuneratività . Si delinea così qualcosa come un chiasmo: contro la negatività  di un potere «positivo»/produttivo, la positività  di un gesto negativo.

Sulla rotta dei cinici
Su questi presupposti è possibile rileggere l’altra metà  del libro di Forti. Perché I nuovi demoni non si limita a una genealogia del male politico e suggerisce, nello spazio di un’etica immanente, antidoti di disobbedienza da opporre all’obbedienza di demoni anonimi. Per questo recupera da Nietzsche un’idea di soggetto come campo di forze che sprigiona una specifica e frammentata energia, opponendo la vita alla sopravvivenza e scompaginando ogni fotografia statica di bene/male, vita/morte. E ripercorre il filo diretto che da Nietzsche conduce a Foucault, il tentativo di sottrarre l’etica a principi di conformità  rispetto a ciò che è reale-razionale-vero e di ripensarla, quasi priva di giudizio, nei termini immanenti di una proiezione sul futuro, un prendersi carico della propria vita e della propria parola. Più che adeguarsi a un’idea di vero o di giusto, si tratta allora di mettersi in gioco in tutto e per tutto: in ciò che si pensa, si dice, si crede. È questa la rotta dei cinici, centrata su un’idea del sé come evento relazionale, e su un atto di parola, la parresia, che a differenza della rinuncia-obbedienza cristiana (sintomi di passività , dell’austerity, del negativo di un potere pastorale «positivo») o del solipsismo della cura di sé stoica ed epicurea, andrebbe intesa prima di tutto come pratica sociale: come controcondotta che letteralmente, nella positività  di un gesto negativo, «falsifica la moneta corrente». Si sa che i cinici, come i punkabbestia, amavano i cani e, a differenza di questi ultimi, consideravano sacri quelli senza padrone: forse per il modo in cui i cani randagi usano lo spazio, per come tagliano i territori, girano larghi, disegnano curve evitando, più o meno inconsciamente, ogni rotta precostituita. Certo, c’è anche il branco, l’imitazione, la ripetizione meccanica di gesti e percorsi, ma resta soprattutto un’altra economia dello spazio, lo spazio disegnato aldilà  di un invisibile guinzaglio. 
Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un testo consegnato a mia figlia per la prova Invalsi di terza media, in cui si elencavano le diverse misure di contrasto nei confronti del randagismo, fenomeno che affligge «molte aree rurali, semirurali o ruralizzate del paese». L’esercizio era legato alla comprensione del testo, per valutare le capacità  di apprendimento dell’alunno, il tutto in forma rigorosamente anonima. Occorrerebbe partire da qui, e rintracciare qualcosa di simile ai nuovi demoni governamentali nel guinzaglio, nell’accalappiacani, nella stessa anonimità  di una procedura di valutazione.


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