Mettere al mondo un figlio nei giorni del terremoto

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Sono una donna di pianura, e della pianura mi sono sempre fidata. È altrove che accadevano le catastrofi: ricordo le mappe che ci venivano mostrate a scuola, durante le lezioni di geografia, con le sfumature di colore che in genere viravano al rosso sangue là  dove aumentava il rischio sismico, e di aver sospirato di sollievo. Il pericolo era altrove, lontano dal mio paese, Budrio, lontano dalla mia elegantissima scuola in stile liberty con le ninfee disegnate lungo le facciate, lontano dalla mia piazza, dalla statua di Quirico Filopanti, dal campanile antico della chiesa della Pieve, dal mio parco, dalla mia casa. Noi eravamo al sicuro, con i piedi ben piantati nei campi di patate, di barbabietole da zucchero, tra i nostri bovini e i nostri suini, protetti dalla nebbia e dal gelo degli inverni e dall’afa molle delle nostre estati, quando il cielo sopra la testa è una distesa piatta, sbrilluccicante e infinita come il mare. 
La notte del venti maggio, questa fiducia si è spezzata. Non si è al sicuro da nessuna parte. Mi sono sentita impotente e beffata: io, che adesso vivo in provincia di Modena, a 900 metri di altitudine, in zona a rischio sismico nettamente superiore rispetto alla bassa, non ho sentito, da quando lo sciame è cominciato, una singola scossa. Ma la mia famiglia era giù e i miei amici pure, sparsi tra Crevalcore e la Romagna. Mi sono accarezzata la pancia. Sapevo che tra pochissimi giorni il bambino avrebbe bussato per annunciare il suo arrivo e sarei dovuta scendere a Bologna e affrontare due rischi e due paure nello stesso momento. 
Mio figlio Ettore infatti, è nato nel pomeriggio del 30 maggio scorso, all’Ospedale Maggiore di Bologna, sotto le scosse, sia pur lievi, di quel giorno. Chissà  se i neonati riescono ad avvertire il pericolo nelle scosse di un terremoto, oppure si sentono come se venissero spinti all’indietro nella pancia della mamma e scambiano quell’oscillazione violenta della terra per quella che hanno sperimentato durante nove mesi nel guscio caldo che li ha contenuti e cullati. Nessuna paura, al contrario di tutti gli altri, ma la nota beatitudine di un universo liquido, mobile e benigno che ti fa dondolare per favorire il ciclo del tuo sonno e del tuo risveglio. 
Credo sia questa la prima cosa che un terremoto spezza, insieme agli edifici e alla crosta terrestre, in chi gli sopravvive: il ciclo del sonno e del risveglio, la fiducia nella terra madre che sostiene. 
Dentro la sala parto, il bambino e io lottavamo nel dolore, con le ostetriche e i medici intorno a fare quel che doveva essere fatto perché tutto finisse più in fretta possibile e soprattutto finisse bene, visto che le cose all’improvviso si erano messe male. I volti di quelle persone che probabilmente non incontreremo mai più, oscillavano sopra di noi, e fuori da quella stanza, un papà  e dei nonni tremavano sulle sedie. Non riuscivano più a capire se quel tremito e il cigolio acido degli ascensori che si scuotevano sui cardini fosse il suono della loro paura interna per l’evento – enorme per loro, ma piccolo per il mondo – che si stava consumando a pochi passi e una soglia di distanza, oppure per quell’altro evento più grande, quell’evento gigantesco, cosmico, che ormai da troppi giorni e notti aveva riempito le loro vite di una paura che non ricordano di aver mai provato prima, o almeno non così forte e così prolungata nel tempo: la terra che sistema con violenza le sue carni sopra il globo.
La prima notte che ho passato da sola con il mio bambino ho dormito a tratti, battagliavo con il dolore fisico, la spossatezza che non ti lascia riposare e il senso di inadeguatezza che coglie ogni mamma nei primi momenti in cui si ritrova sola con la propria creatura da accudire, proteggere, sollevare, calmare, nutrire. Potevo affrontare molte di queste cose, ma se fosse arrivata una scossa più violenta, che armi avrei avuto, per difendere la vita di mio figlio? Fuori dalla finestra vedevo l’altra ala dell’Ospedale Maggiore con le luci accese, il colle di San Luca e le fronde degli alberi che tremavano al vento. Il letto ogni tanto oscillava, e così la culla trasparente dove potevo vedere il viso sereno di Ettore che dormiva. Il mondo era lontanissimo, ero senza computer e senza i-phone, immersa in una bolla in penombra gonfia di tenerezza, amore e sofferenza, tutto mischiato. Tutte le polemiche umane sfumavano davanti a quelle visioni che mi arrivavano insieme a ogni scossa. Come poche ore prima, durante il travaglio, visioni altrettanto potenti si erano succedute nella mia mente a ogni violenta e dolorosissima contrazione. Il mio corpo, come il pianeta, si squassava e si apriva, e non c’era più una separazione e un confine tra me e la terra sotto di me. 
Mi sono lasciata andare a quelle visioni e ho pensato alla gente della mia terra, alle persone che conosco, gente che sono anch’io, un popolo gentile e semplice, dai modi a volte un po’ spicci, che vive nelle piazze dei suoi paesi, sotto i portici, gente che conosce la storia di ogni chiesa, di ogni casa, di ogni muro, che ama le sue casette linde e ordinate, persone che non hanno paura di dire quel che pensano e di svegliarsi la mattina con le braccia pronte a farsi carico del mondo così com’è e non come vorrebbero che fosse. Per il mondo come si vuole che sia, occorre darsi da fare, e qui non abbiamo mai avuto paura che “la terra fosse troppo bassa”. Ho stretto i denti e mi sono alzata dal letto, mi sono chinata sul corpo minuscolo del mio bambino che piangeva, l’ho sollevato tra le braccia, l’ho portato al fasciatoio e per la prima volta, l’ho cambiato e lavato da sola. Da allora, Ettore, nato nei giorni del terremoto, continua a dormire tranquillo.
© 2012


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