Quel felliniano di Andreotti

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Federico Fellini, diceva spesso che di mestiere faceva l’aggettivo. Eppure l’aggettivo “felliniano” è ingannevole, rimanda a un mondo di sogni e nostalgie fuorviante rispetto a quello che oggi la sua opera ci dice. La forza del suo cinema, dalla risonanza planetaria, risiede in una immersione di intensità  unica nelle profondità  della cultura italiana del ‘900, quella alta e quella bassa. L’opera di Fellini è anche quella di un grande antropologo, e i primi ad accorgersene furono certi scrittori, da Oreste Del Buono a Italo Calvino, che su di lui scrisse la memorabile Autobiografia di uno spettatore.
A raccontare il rapporto tra Fellini e la realtà  politica dell’Italia è ora il libro di un giovane studioso, Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico (Rubbettino, pagg. 248, euro 16) che tra l’altro ospita in appendice dei brani dell’epistolario tra Fellini e Giulio Andreotti. In effetti, l’interesse di Fellini per Andreotti non stupisce. Secondo quanto dichiarò, il regista oscillava politicamente tra il Psi e il Pri, e votò per la Dc solo nel ’76 (turandosi il naso, ovviamente); ma se poteva affidare il voto a un riformista sanguigno come Nenni, o a un laico come il suo amico La Malfa (e partecipare al picchetto d’onore dei funerali di Berlinguer), il suo mondo era assai più prossimo a quello cattolico-romano di “Belzebù”. Nelle lettere tra gli anni ’70 e gli ’80 i due passano dal “lei” al “tu”, si scambiano affettuosi messaggi (anche tramite Franco Evangelisti), e Andreotti cerca invano di coinvolgere il regista in varie iniziative, dalla Fondazione Fiuggi alla “Casa di Dante”. Un motivo di attrito sarà  la legge sulle interruzioni pubblicitarie, difesa da Andreotti. Fellini, in un’intervista a Repubblica, vi vedrà  “tutti i segni di uno smarrimento morale prima ancora che di un palpabile smarrimento politico”. Ma i rapporti tra i due continueranno. Al regista, Andreotti sembrava “inventato da un grande romanziere”, un personaggio “da corte shakespeariana come Otello”. Viene da pensare che, per le stesse ragioni per cui avvertiva il fascino dell’uomo, Fellini avrebbe apprezzato un film come Il divo.
Ma al di là  degli aneddoti, il viaggio di Fellini nella società  italiana è tutto appassionante: e non solo quando, con La dolce vita e 8 e ½, è in perfetta consonanza con un’epoca (come ci ricorda un altro libro appena uscito, C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita di Oscar Iarussi, Il Mulino). Dalla metà  degli anni ’60, il cinema di Fellini è più cupo e claustrofobico, ma sempre ossessionato dall’Italia presente. Dopo il Casanova (film in maschera, e archeologia del “vitellone fascista”), verranno i due film più politici, Prova d’orchestra (1978) e La città  delle donne (1980). Il secondo, tra le sue cose meno riuscite, è però tra i pochi film italiani ad affrontare la novità  del femminismo. Ed è divertente, nel libro di Minuz, rivedere la diplomazia felliniana all’opera, i tentativi di coinvolgere Adele Cambria o Germaine Greer (che continua a ripetergli: “Ma Federico, che ne sai tu delle donne?”). Prova d’orchestra poi venne apprezzato come pamphlet politico in maniera tanto unanime da risultare imbarazzante. Ma la testimonianza d’epoca che colpisce di più è la recensione di Lotta Continua, che con un brivido riconosce parti del Movimento nelle figure in scena: «Se ne esce sconcertati e si resta a lungo inseguiti dal pensiero – ma sono proprio io quello? O meglio siamo proprio noi?». E pur “sviliti, ridicolizzati”, la risposta forse è sì.
Negli anni ’80, gli interventi pubblici del regista saranno sempre più violenti e amareggiati, specie nell’inutile battaglia contro le interruzioni pubblicitarie dei film. Minuz sembra imbarazzato davanti al Fellini “apocalittico” di quel decennio, in prima linea contro le tv private e alle prese con film sempre più diretti. Ma non era, quello dell’ultimo Fellini, solo lo sguardo di un vecchio che non capiva più il presente. Era anche la libertà  che molti artisti trovano alla fine della loro carriera, presi da un’urgenza cupa e quasi “anti-estetica” di dire le cose. L’ultimo Fellini mostra senza veli il proprio lato nero. Ci libera dagli equivoci sul “fellinismo” e restituisce l’immagine di un artista radicale e spietato. Emblemi del degrado sono la sagra dello gnocco in La voce della luna, e più ancora il cavalier “Lombardoni”, padrone di quella tv che in Ginger e Fred è vista come un mondo circense e claustrofobico, quasi una versione deforme dell’amato mondo di Cinecittà . È questo l’elemento tragico e ironico: ciò che nell’Italia degli anni ’80 indignava di più Fellini erano la versione patologica di qualcosa che lo aveva sempre attratto e respinto, e ispirato: insomma qualcosa di oscenamente “felliniano”.


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