Adele Corradi “Originale e difficile, il vero Don Milani ha insegnato a dare del noi alla scuola”

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Solo alla sua età , a 88 anni, si può ridere così. È una risata libera, che arriva da lontano. Solo Adele può dare dello «scemo» a don Lorenzo senza togliergli niente, anzi aggiungendo molto. «Ma non dia peso alle parole. Uno “scemo” in bocca a un fiorentino è sempre affettuoso, esprime simpatia», dice questa vivace e ironica signora che ci accoglie nella sua casa, in una delle zone più belle di Firenze. Adele Corradi è la professoressa di don Milani, o meglio è «la professoressa diversa da tutte le altre» a cui lui dedicò con queste parole una copia della più celebre tra le sue lettere. Figlia della buona borghesia fiorentina, Adele salì a Barbiana nel 1963, l’anno della scuola media unica, e finì per rimanervi anche oltre la morte di don Lorenzo, nel 1967. Solo dopo mezzo secolo ha deciso di affidare i suoi ricordi a un diario bellissimo, scritto senza il turibolo in mano. Un ritratto irrituale di uno dei personaggi più affascinanti del Novecento, tenerissimo e insolente, generoso e maschilista, ironico e capace di grande severità . Non so se don Lorenzo è il titolo della sua testimonianza pubblicata da Feltrinelli. «So bene che don Lorenzo… mi avrebbe trattato malissimo se avesse letto certe pagine», continua Adele nella sua quieta casa affacciata sul verde. Lo sguardo alterna preoccupazione e divertimento, ma sull’affanno prevale la serenità . 
Al primo impatto non le fece una buona impressione. Si aspettava «un tipo rustico», e si trovò davanti «un tipo che sembrava uscito da un salotto».
«Ho solo voluto descriverlo in modo scherzoso. Le maniere di don Lorenzo, il suo modo di muoversi e anche di mangiare, erano quelle di una persona che proveniva dall’alta borghesia». 
Lei aveva l’abitudine di portargli la pasta di tartufo assecondando il palato fine. 
«Succedeva di rado. Ed è un’annotazione che faccio di sfuggita. Certamente, se la leggesse, don Lorenzo avrebbe un moto di rabbia. Ci teneva molto a non apparire più come figlio della classe in cui era nato». 
Perché dopo il primo giorno decise di tornare a Barbiana “appena possibile”? 
«Avevo capito che là  nasceva la vera scuola moderna. Quando andai la prima volta, trovai i ragazzi che stavano disegnando una mappa dell’indipendenza africana: a seconda dell’anno, i paesi erano colorati con una tonalità  diversa che diventava sempre più chiara. Con un colpo d’occhio potevi cogliere tutta una serie di informazioni storiche che avrebbero richiesto, espresse con parole, una spiegazione lunga, noiosa e fatta apposta per essere subito dimenticata». 
Come vi distribuivate il lavoro? 
«Chiunque capitasse a Barbiana faceva il “tappabuchi”. Io insegnavo latino perché don Lorenzo non aveva voglia di insegnarlo. Ma non c’erano programmi fissi, la scuola era la risposta alle esigenze dei ragazzi. Marcello non sapeva parlare? Don Lorenzo metteva davanti al bambino una banana: “Di’ banana e ti do la banana”. Io mi misi a fargli imparare i numeri. Dopo qualche mese Marcello riuscì a parlare. Per imparare a contare ci ha messo parecchio di più». 
Mario Lodi fa notare che di solito si parla di Barbiana come fosse una scuoletta di campagna. In realtà  era una scuola raffinata. 
«Sì, il livello era molto alto. I ragazzi sapevano usare l’astrolabio, e non è certo facile. E, quando si ascoltavano i concerti, su un grande telone su cui era disegnato lo spartito dovevano marcare con una canna l’ingresso dei fiati e dei violini. Una volta facemmo per un mese anatomia e li portammo a Firenze al museo delle cere: il custode aprì per loro una sala destinata solo agli studenti universitari». 
Lei arrivò quando cominciavano i primi esperimenti di scrittura collettiva. 
«Sì. Don Lorenzo abolì l’io a favore del noi. Anche la Lettera a una professoressa fu scritta così. Se al mattino mi veniva un’idea, lasciavo un bigliettino sul tavolo dove i ragazzi lavoravano. Ognuno di noi lasciava la sua idea, il suo bigliettino. Anche don Lorenzo aveva i suoi. I foglietti venivano poi raccolti in capitoli e i capitoli venivano organizzati secondo un ordine logico. Quando si passava alla stesura definitiva, su mezza colonna si scriveva il testo e sull’altra mezza colonna si annotavano le osservazioni. Solo alla fine veniva corretto lo stile». 
Lei osserva che, senza il contributo dei ragazzi, don Milani l’avrebbe scritta in modo diverso, perché «in altri suoi scritti», lei dice, «ogni tanto ci trovo un po’ di retorica». 
«Sì, mi ricordo di averglielo anche detto. I ragazzi erano più severi nel limare la retorica». 
Il vostro rapporto non fu fra i più facili. 
«No, perché? Credo si sia trattato di una fortunata combinazione. Io ero abbastanza furba. Avevo capito bene quale doveva essere il mio ruolo lassù. Quando lui mi disse: “Lei deve decidere chi vuole essere qui”, io avevo già  deciso da tempo. Dovevo essere una persona che non si notava. Un servitore non deve farsi notare». 
Ma l’impressione è che don Milani tenesse a distanza il mondo femminile. 
«Non capisco perché tanti, leggendo il mio libro, hanno tratto l’impressione che don Milani fosse maschilista. Mi domando come mai». 
Talvolta appare troppo duro con Eda, “la padrona di casa”. E anche con le ragazze. 
«Ricordo però anche episodi che lo dovrebbero fare apparire tenerissimo, capace di infinita attenzione. E anche quando gli sembrava sbagliato appoggiare la sua mano sulla mano di una ragazzina, lo faceva nel suo interesse: non voleva creare dipendenze psicologiche». 
Appare anche molto preoccupato che lei, Adele, si potesse affezionare troppo. Poco prima di morire le chiese se i suoi sentimenti erano andati “oltre i limiti”. 
«A dir la verità , non mi chiese se i miei sentimenti erano andati oltre i limiti. Mi chiese se avevo avuto il dubbio che i miei sentimenti fossero andati oltre i limiti, se me ne ero fatta uno scrupolo. Anche questa mi sembra una preoccupazione generosa. Si dispiaceva all’idea di essere stato fonte di sofferenza». 
Temeva che lei fosse innamorata? 
«Credo che, se avesse avuto questo timore, mi avrebbe allontanato da Barbiana. Penso invece che temesse che mi fossi fatta degli scrupoli e, da buon confessore, voleva aiutarmi a liberarmene. Dossetti diceva di lui che era un’anima sacerdotale». 
Ma lei ne era innamorata? 
«Sono sicura che, avendo letto il mio libro, lei ha capito benissimo che non ne ero affatto innamorata. Certo mi fa questa domanda perché vuol capire come mai non lo fossi. Me lo sono domandata anch’io. Ha contato molto il fatto che per me un prete rimaneva un punto di riferimento sacro, ma ci son stati anche altri motivi. Ci vorrebbe forse una seduta da uno psicologo per individuarli».
Don Milani sapeva di avere una personalità  carismatica. 
«Penso di sì. Come poteva non accorgersene? Però sapeva anche che certi suoi atteggiamenti, quasi sempre voluti, erano molto sgradevoli. Tanto per fare un esempio dei più banali: se qualcuno portava un regalo, lui di solito non ringraziava. Negli ultimi tempi Michele, il suo figliolo tanto amato, diceva: “Il Priore non è più lui, non fa altro che ringraziare…”». 
Dal suo racconto affiora il ritratto di un uomo profondamente solo. 
«No, non era un uomo solo. Come prete era solo, anche perché malvisto dalla Curia. Quando non si poteva più alzare dal letto per dir messa, il solo che venisse a celebrarla – e a dare a lui la comunione – era don Cesare Mazzoni». 
Lei scrive che il rapporto fra lei e don Milani è stato un rapporto “in superficie”. In realtà  non sembra. 
«Quando c’è un legame profondo, si ha bisogno l’uno dell’altro. Don Lorenzo non aveva bisogno di me. Ero lì per dare una mano, e lui me ne era grato. Ma se me ne fossi andata da Barbiana, sarebbe stato come levare un secchio d’acqua da un lago: la superficie s’increspa un po’, ma dopo poco torna tranquilla». 
Perché ci ha pensato cinquant’anni prima di mettersi a scrivere i suoi ricordi? 
«Temevo l’aneddotica, che fatalmente impoverisce. E poi da vivo don Lorenzo era considerato un appestato. Dopo la morte cominciò la tendenza a servirsi di lui per sostenere le tesi più strampalate. Non volevo prestarmi a strumentalizzazioni». 
Che cosa le è mancato di più dopo la sua morte? 
«Mi è mancata la sua originalità , l’ironia. Ma soprattutto aveva la straordinaria capacità  di darmi pace. Veniva ogni tanto da noi una professoressa che mi pareva una donna eccezionale. Sa di quelle che sanno far tutto? Colta, impegnata, anche cuoca sopraffina…». 
Insomma, insopportabile. 
«Sì, in realtà  ero molto invidiosa. E una volta chiesi a don Lorenzo: “Ma come farà  a trovare il tempo per fare tutte quelle cose?”. “Non vuol bene a nessuno”, mi rispose di botto. Era vero! Quante più cose si farebbero se non si volesse bene a nessuno».


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