Jo Nesbภ“Il mio noir seduce i lettori con il lato psicopatico della vita quotidiana”

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Harry Hole, l’ex poliziotto con tendenze autodistruttive, il protagonista della serie che ha venduto milioni di libri in tutto il mondo, diventando una star assoluta del panorama noir, nasce in quell’angolo dello specchio dove lo scrittore norvegese ha saputo vedere quello che molti altri riescono solo a guardare: il lato oscuro di se stesso. Il cinquantenne biondo che i clienti del locale osservano scivolare un po’ sghembo tra i tavoli vestito in jeans, giubbino da trekking e t-shirt nera è senza dubbio alcuno Harry Hole. Come lo stesso Nesbภsarà  costretto ad ammettere dopo un’ora di conversazione sospesa tra il nuovo libro in uscita ora in Italia, Lo spettro (Einaudi Stile libero), i vini francesi con cui accompagnare l’anatra alla pechinese («La migliore di Oslo»), le vacanze in Italia
(«Ho preso una casa nelle Marche, passerò una settimana a bere e a suonare la chitarra con i miei migliori amici»), la musica («La giornata perfetta è quando alla sera mi esibisco con la mia band»), il cinema («Che mi ispira di continuo») e il calcio («Da ragazzo ero certo di diventare il centravanti del Tottenham»): il tutto frullato dentro un flusso ininterrotto di parole, maneggiate con abilità  e ritmo avvincente. Una jam session di emozioni, risate e riflessioni che sono le stesse respirate nei suoi romanzi, ne Lo spettro in particolare: forse il suo capolavoro. Dove le pagine hanno la potenza di uscire ben presto dallo steccato del genere vagando per le praterie della letteratura senza temere paragoni. Neppure con i classici: tanto che il New York Times ha scomodato Ibsen e lui ride felice quando glielo si ricorda.
Prima dell’ultimo libro, temo si debba partire da una domanda su Stieg Larsson: con il quale, nonostante non sia così, per molti lettori italiani (ma anche europei) nasce il noir scandinavo. Lei si sente dentro questa tradizione? Che rapporto ha con l’autore della Trilogia?
«Ho iniziato a scrivere senza conoscerlo. In realtà , se ho avuto influenze, sono da ricercare negli scrittori americani, i grandi classici come Hemingway. E la scelta di dedicarmi ai noir è stata piuttosto casuale, temevo di non riuscire a concludere il libro e così ho pensato che un giallo mi desse un inizio e una fine: io voglio solo raccontare storie avvincenti, non bado all’etichetta che verrà  messa a ciò che faccio».
Lo spettro ha l’aria di essere uno dei suoi libri migliori: nell’intreccio narrativo, nella costruzione dei personaggi si intravede un duro lavoro. È d’accordo?
«Ogni volta che inizio mi dico: voglio scrivere il libro perfetto, poi alla fine spero solo che il risultato abbia distrutto il meno possibile della mia idea di partenza. In genere comunque io sono d’accordo con i miei lettori, non faccio come le rockstar a cui chiedono qual è la tua canzone preferita e loro rispondono citando uno sconosciuto bside di un vecchio 45 giri. Direi che
Il pettirosso è il mio preferito, L’uomo di neve quello più commerciale e Lo spettro è il migliore, quello più letterario».
Mi ha colpito la cura dell’aspetto psicologico dei personaggi, che si impasta alla perfezione con la suspense della trama: come governa queste due anime della narrazione?
«Bisogna avere una cornice ben definita, alcuni temono di perdere creatività  dandosi delle regole: io invece penso che così il lavoro venga meglio. Sono regole che poi è bello trasgredire all’improvviso, regalare emozioni e sorprese. È come
corteggiare una bella donna, il rapporto tra lo scrittore e il suo lettore è come un lungo appassionante flirt. Devi sempre stupire, cercare di non perdere, scrivendo, la complessità  della vita. Alla fine poi tutto si basa sui contrasti: in questo caso tra vittime e carnefice. Poi ne Lo spettro mi piace che ci siano più punti di vista, che la storia abbia salti temporali, penso di essere riuscito a coniugare al meglio cuore e cervello».
Nell’introspezione dei personaggi svetta, ovviamente, Harry Hole che invecchia libro dopo libro, che qui sembra a caccia di una stabilità  a lui sconosciuta. Come si tiene vivo un personaggio così a lungo senza cadere nello stereotipo?
«È semplice: mi sono arreso. A lungo ho cercato di rimanere separato, distaccato da Harry, poi ho capito che così non funzionava. Ho capito che dovevo ammettere a me stesso anche il mio lato “psicopatico”, ho capito che lui era una proiezione di me. Serve un po’ di coraggio per farlo, poi è una liberazione. È come essere un attore: più riesci a calarti nella parte, più risulta vero quello che scrivi».
Nel libro è decisivo il legame tra Harry e Oleg, il figlio di Rakel, la donna che lui ama da una vita. Perché ha deciso di costruire la storia attorno a questo rapporto?
«Già  nel Leopardo il rapporto padre-figlio era importante, ma in quel libro Harry era il figlio. Qui lui è cresciuto, gestisce una nuova situazione ed è interessante perché non è il padre biologico: ha preso questa decisione solo per amore, è una scelta pura. Lui vive un contrasto che io capisco benissimo: tra la sua voglia di libertà  e le responsabilità  che si deve prendere. Ma è una contraddizione apparente, sono le persone più libere a sentire il peso, l’importanza degli impegni che prendono molto sul serio, sanno che sono gravosi e quindi nel loro intimo ne vorrebbero scappare. Poi però rimangono e lottano».
Come si prepara per descrivere così a fondo i meccanismi della criminalità  organizzata?
«Faccio tantissimo lavoro di ricerca. Passo mesi e mesi a leggere tutto quello che trovo sull’argomento che mi interessa: poi in realtà  di tutta questa mole di informazioni uso un dettaglio, una piccola cosa che capisco subito essere quella pepita
che cercavo. Inoltre parlo con i poliziotti di Oslo, con loro ho un ottimo rapporto: mi danno dritte e consigli». Oslo, la città  che appare è ben diversa dalla cartolina che si ha in mente. Qual è il suo vero volto?
«La Oslo di Harry Hole è una proiezione distorta della vera Oslo, come Gotham City di Batman lo è per New York. Però non è molto lontana dalla verità : la droga è diffusissima e i miei giri per la città  durante la fase di ricerca me lo hanno confermato ».
Senza parlare direttamente dei tempi che viviamo, il libro ha una sorta di sapore cupo, pessimista. Quanto è influenzato dalla realtà ?
«Io sono uno che crea uno spettacolo, sono uno che vuole e deve divertire. Tutti gli scrittori alla fine sono intrattenitori, ma è chiaro che sono immerso nella vita di tutti i giorni. Quando guardo indietro, le cose che appaiono nei miei libri sono quelle che succedevano intorno a me, che sono state importanti per me. Non si può essere apolitico, lo scrivere è un atto politico: il mondo circostante fa, deve far parte della storia».
Il mondo che ci circonda, appunto. In Norvegia adesso si celebra il processo a Breivik, l’autore della strage di Utoya. Che ne pensa?
«Non penso sia specchio di qualcosa di importante, ha agito da solo, non ha dietro un movimento politico. Quello che mi preoccupa è come l’hanno trattato i mass media, dandogli quella fama che lui cercava e trasformandolo in una sorta di attrazione da circo».
Chiudiamo con Lo spettro: cosa vorrebbe rimanesse nei lettori, arrivati alla fine?
«È un po’ come nella musica. Non saprei spiegare, ma alla fine vorrei rimanesse un’emozione, una commozione».
E di Harry? Che ne sarà  di lui?
«Ho in testa tante storie: so già  cosa succederà ».
Lo dice con uno strano sorriso, prima di alzarsi, rovesciare un bicchiere di vino rosso sul tavolo e uscire come un’ombra dal ristorante seguito dallo sguardo affascinato delle donne, che alzano gli occhi dal piatto fingendosi distratte.


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