“PIAZZE E POLITICA PIà™ KEYNES PER TUTTI”

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Da Occupy Wall Street al futuro. Dopo i mesi della protesta sono arrivati quelli della riflessione. Su questo movimento e non solo, per capire cosa è successo. «Trovo davvero incoraggiante che così tanti giovani si siano uniti alle manifestazioni di protesta», racconta Michael Walzer. Abbiamo incontrato questo filosofo della morale e della politica nel suo ufficio dell’Institute for Advanced Study di Princeton, per cercare di analizzare il fenomeno. Per Walzer (76 anni, direttore della rivista Dissent, autore di libri fondamentali per la riflessione su radicalismo politico e religioso, nazionalismo, violenza: Esodo e rivoluzione, Sfere di giustizia, Guerre giuste e ingiuste),
l’occupazione di una piazza di Manhattan è stato il segnale di un più vasto movimento di risveglio democratico e di cittadinanza.
Michael Walzer, perché “Occupy Wall Street” è stato un fenomeno positivo, per la politica e la società  americana?
«Anzitutto per ragioni geografiche. Nella nostra storia recente abbiamo avuto grandi manifestazioni pacifiste, a Washington, a New York, a San Francisco. Ma niente può essere paragonato a quello che è successo nei mesi scorsi. La protesta si è diffusa a tante piccole comunità , alla periferia del Paese. È una cosa straordinaria, che mi ha emozionato».
Qual è stata la molla che ha spinto così tanti a protestare?
«C’è una parte ormai consistente della popolazione, negli Stati Uniti, che pensa che il livello di diseguaglianza sia ormai diventato insopportabile. Storicamente, gli americani hanno una particolare avversione per l’invasione del governo federale. Ma in questi anni è cresciuta la consapevolezza che questo sistema economico non è più sostenibile, e che è necessario introdurre cambiamenti profondi. Pare ormai chiaro che il piano di incentivi all’economia pensato da Obama e dalla sua squadra economica all’inizio del primo mandato non sia stato sufficiente. D’altra parte Obama, a differenza di Roosevelt negli anni Trenta, non ha cercato di approfittare della crisi per una radicale riforma del sistema finanziario. Il suo obiettivo era restaurare il vecchio sistema, quello degli anni di Clinton. Non a caso, molti suoi collaboratori economici sono stati gli stessi di Clinton. Non mi sembra siano andati molto lontani. Le condizioni di partenza erano molto difficili. Forse, ci sarebbe voluto più coraggio».
Lei si è sempre definito “socialdemocratico”. Lo è ancora?
«Sì. Penso che la situazione attuale richieda più democrazia sociale. Non sono un economista, ma mi sembra che una certa forma di keynesianesimo, interno e internazionale, sia a questo punto necessario. Come è necessario ridare alla politica la sua funzione di rappresentatività  sociale. E queste sono strategie socialdemocratiche ».
Molti hanno rimproverato a “Occupy Wall Street” la mancanza di un vero progetto politico.
«È vero che “Occupy Wall Street” è stato segnato da una forte ideologia anarchica, dalla mancanza di leader e di programmi. Ma questo non è il compito dei movimenti di protesta. Dovrebbero0 essere i politici – soprattutto quelli democratici – a interpretare i movimenti, a trarre dalla protesta stimolo all’azione. Dovrebbe essere la politica a dare risposta ai bisogni che sorgono, anche confusamente, dalla società . È così che funziona la democrazia. E così non avviene, purtroppo. Quello che un movimento come “Occupy Wall Street” rivela è che forse la nostra democrazia non funziona più tanto bene. Le istanze di cittadinanza, le richieste di partecipazione, non trovano più sbocchi nei partiti politici».
Questi sono stati anche i mesi delle “primavere arabe” e delle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria. C’è un filo comune, che lega questi movimenti all’Occidente?
«“Occupy Wall Street” non ha avuto come obiettivo quello di rovesciare i tiranni, e si è sviluppato all’interno di uno Stato democratico. Un po’ come è avvenuto in Spagna e Israele. Nei Paesi arabi, soprattutto in Libia e Siria, dove è scoppiata una vera e propria guerra civile, la situazione è molto diversa. Vedo analogie soprattutto a livello generazionale. È stata la generazione più giovane, quella di Facebook, di Twitter, a nutrire la rivolte in Tunisia ed Egitto, un po’ come è avvenuto in molti Paesi occidentali. I social media sono uno straordinario strumento di risveglio e riappropriazione civile e democratica. Non sono comunque certo sugli esiti di queste rivolte. Temo che i gruppi che le hanno guidate siano uno strato molto sottile, ed esterno, all’interno di queste società . Non hanno particolari legami con la popolazione delle campagne, con la gente delle periferie urbane povere. Questi giovani possono cacciare i tiranni. Ma non riescono a sostituirli. Temo che i tiranni come sta già  succedendo vengano sostituiti da partiti islamici di orientamento vario: partiti non liberali, non laici, probabilmente più moderati rispetto agli islamici in Iran».


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