Quattro età , quattro solitudini

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«Sì, datemi l’indifferenza della polvere!». A invocarla è Giorgio, un pittore italiano nel crepuscolo dell’età  che negli anni Sessanta si ritira in campagna a dipingere e ad attendere la morte; un altro giovane e dissipato pittore, Peter Caldicutt, è in corrispondenza con lui. C’è anche Annette, ragazzina afflitta da cecità  progressiva che si crede minacciata dalla Bestia vista su una pala d’altare del suo paese nell’Italia centrale; e Suze, la figlia di Peter, che ha perso il fratello gemello in un incidente e tenta di ritrovare i fili della propria consistenza vitale nelle secche del lutto. Sono le quattro esistenze che Sarah Hall in Ritratto di un uomo morto (traduzione misuratissima di Fiorella Moscatello e Giovanna Scocchera, gran vìa edizioni, pp. 328, euro 17) ferma e dispone come agli angoli di una stanza vuota, rompendo la serie cronologica della trama, intrecciando quattro momenti di consapevolezza che prendono forma a quattro decenni di distanza. Dopo la notevole incursione biografica nel mondo del tatuaggio di The Electric Michelangelo (2004) e un singolare esperimento di fantascienza apocalittica (The Carhullan Army, del 2007) Hall – una delle autrici under 40 più dotate nel panorama inglese – nel 2009 è giunta con questo romanzo, il primo tradotto in italiano, al suo forse più compiuto momento di espressione. 
Queste quattro solitudini sono anche quattro età  della vita strette da una resa dei conti nel cui presente di emergenza precipitano tutte le esperienze del passato, e che devono confrontarsi con la morte e con il dubbio sulla propria identità  definitiva. Quella dell’arte è stata sempre per loro una presenza concreta, e ha assunto le forme più diverse: pratica quotidiana e declinazione attiva del proprio essere nel mondo per il signor Giorgio, ossessione e ribellismo ingenuo da figlio di papà  per il suo giovane corrispondente, mistero, grazia ma anche farmaco di un’esistenza marginale per Annette; Suze la vive invece come appendice nevrotica e provocatoria, perché nella sua professione di gallerista ne sfrutta gli aspetti e le sopravvivenze più corrivi. 
Nella triangolazione tra diversi momenti temporali e diverse geografie (dall’Italia rurale forse un po’ troppo candida che scopre la televisione alla natura scabra della Cumbria) resta il dubbio che la tensione alla libertà  data dall’arte si traduca in una gabbia dipinta: come i raggi X proiettati su una tela scoprono la fallibilità  di un artista, i pentimenti, gli squarci e i rammendi, così il momento della scelta obbligata tra voler vivere e dover morire mette a nudo la sequela delle colpe, degli atti mancati e delle deviazioni impredicibili che compongono un’esistenza. È la scrittura densa di umori di Hall ad arricchire di percezioni minimali questi carotaggi della memoria, e sono gli oggetti più minuti e irrilevanti – una bottiglia blu, un paio di occhiali – a passarsi la staffetta delle storie, ma senza caricarsi di alcun valore o calore ideale di testimonianza. Spenta la vita che dava loro significato, sono relitti muti: «prove di esistenza» da smantellare. Così empatia e distanza funzionano in parallelo, e dalle tensioni alternate tra una voce e l’altra si genera un movimento che ci fa ondeggiare tra identificazione e distacco: perché è proprio nel vuoto aperto dal tempo che si annida e pulsa il senso. 
Ciascuno si narra a se stesso e narra di se stesso, faccia a faccia con la propria solitudine essenziale e la solitudine estrema della morte, al contempo meditando sulla sopravvivenza, su come il tempo trasformi un magma di possibilità  in un «qualcosa di vissuto» a senso unico, svuotato. Chi scrive tesse e disfa la tela del tempo orchestrandone echi e richiami: sta al lettore raccogliere un’esperienza integrale del tragico passo dopo passo, dipanando con lentezza il gomitolo delle storie, riunendo assieme frammenti di percezioni minute che riverberano a distanza, ricostruendo una trama più vasta di relazioni fra i personaggi da scampoli di biografie altrui, tutte plausibili perché tutte fittizie. Resta costante nella ormai consistente produzione narrativa di Hall (l’anno scorso sono usciti i racconti di The Beautiful Indifference) la fascinazione per figure femminili sospese in un vuoto indeciso, tra l’aspirazione impossibile a una solidità  sovrumana, a specchio dei paesaggi aspri della sua regione natia (in Suze come nella protagonista di Carhullan Army) e una fragilità  che le risucchia e le porta a disperdersi nell’autodistruzione senza neanche i conforti del compiacimento. 
Ma Sarah Hall si ferma un passo prima della pietas. Rispetto alla retorica consueta della fine come «resa dei conti» produttiva di una soluzione purchessia, qui non c’è nessuna tentazione consolatoria: per alcuni di questi protagonisti l’identità  (demone che sferza un’intera epoca) non è una conquista o un ideale ma una ferita aperta, una forma sfocata inattingibile, un compromesso di ripiego raggiunto da osservatori esterni; e solo Giorgio, l’anziano pittore che ha attraversato fascismo e guerra mai staccandosi dalla disciplina scontrosa del dipingere, che non risolve nulla ma gli è sempre bastata, giunto all’ultimo punto potrà  congedarsi dalla vita con una serenità  lucreziana, se di fronte a una donna che piange per lui penserà : «Crede che io sia un uomo solo? Sta forse sottovalutando la vita che ho vissuto e il piacere che ne ho tratto?». 
All’opposto, il bizzarro Peter Caldicutt, bloccato sulle montagne con una gamba rotta in una notte pietosa e disperata, tra i lampi e i soprassalti del passato e l’emergere di colpe nascoste, sarà  condotto a una decisione ultima, all’accettazione combattuta di sé: «Deve smuovere qualcosa, se vuole salvarsi. Ma che scelta ha, se non quella di dire “Io sono questo, e sono qui”»? E se «la vita è assurda» e «le nostre menti brancolano nel buio» comunque, le conclusioni sono giocoforza amare: anche Suze si forza a vivere nonostante tutto, in un finale giocato tutto al livello crudele, cioè autentico, della materia. 
Sta in un atto di volontà  che ha qualcosa della scommessa, ma tutta umana, tutta mortale, il tentativo di affrancarsi dalla sensazione che non siamo noi gli autori delle nostre scelte, ma siano in fin dei conti la vita o il caso a incaricarsi di sceglierci o scartarci come anonimi soggetti di nature morte. Non solo per questo nell’ «uomo morto» di Hall sarà  possibile per ciascuno riconoscere un autoritratto in uno specchio spietato.


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