RACCONTARE STORIE MIGLIORA LA SPECIE

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Shahrazad, voce delle Mille e una notte, affidava la sua vita al desiderio del sultano di sapere come finivano i suoi racconti. Oggi la scienza le dà  ragione: non resistiamo al richiamo della finzione, bramiamo condividere con gli eroi del romanzo le loro gioie e traversie, e lo facciamo per ottime ragioni evolutive. È la tesi di The Storytelling Animal: How Stories Make Us Human (ed. Houghton Mifflin Harcourt) di Jonathan Gottschall, docente di letteratura al Washington & Jefferson College di Pittsburgh ed esponente dei darwinisti letterari americani. «Le storie saturano le nostre vite: spendiamo quasi la metà  delle ore di veglia in mondi immaginari – siano essi film, romanzi, giochi o anche solo sogni ad occhi aperti. Il fascino delle storie attraversa tutte le culture, ed è innato – spiega Gottschall – Ecco perché pensiamo che, come tutti i comportamenti che superano il setaccio della selezione naturale, anche narrare sia stato un vantaggio per la specie».
Ma come può essere utile trastullarsi con vicende di personaggi che, non esistendo, non ricambieranno mai le nostre attenzioni, magari sottraendo tempo a occupazioni più produttive o alla compagnia dei nostri simili, loro sì in grado di fare qualcosa per noi? «Tutti gli animali sono dotati di programmi emotivi che servono a reagire in modo efficace a certe situazioni, ad esempio l’incontro con un predatore. È l’intensità  delle emozioni che aiuta il cervello ad apprendere, rendendo più saldi i ricordi a più alto contenuto emotivo. Vale anche per l’Homo sapiens. Che però è l’unico ad emozionarsi anche di fronte a informazioni slegate dal “qui ed ora”, cosa che ci permette di prepararci ad affrontare ogni tipo di minaccia». Anche quelle inesistenti: Aristotele aveva ragione nel sostenere che “Lo storico descrive fatti accaduti, il poeta fatti che possono accadere”, ma è altrettanto vero che oggi chiunque sa come uccidere Dracula o avere la meglio su Polifemo. E però proprio questa capacità  di svincolare la mente dal “qui ed ora”, apparsa 50.000 anni fa con le prime forme d’arte della rivoluzione paleolitica, è stata anche un rischio: così come delle infinite possibili mutazioni genetiche solo poche, alla fine, migliorano una specie, allo stesso modo chi può elaborare tantissime combinazioni tra dati veri e fittizi rischia di confonderli e disancorarsi dalla realtà .
Il rimedio? Il “fare finta”, o gioco simbolico, fenomeno spontaneo nei bambini di tutto il mondo e in ogni epoca. Le arti sono
la continuazione, da adulti, del gioco simbolico e secondo il biologo E. O. Wilson ci fanno familiarizzare con la finzione quel tanto che basta ad evitare che la fantasia corrompa con le sue ombre seducenti la nostra conoscenza del mondo. Facilitata, quest’ultima, dalla narrativa: le storie sono in fondo modelli della realtà  semplificati, e rispondono bene al nostro bisogno di riconoscere schemi in ciò che accade, individuare cause, intenzioni e agenti. «Perfino agenti fittizi perché in termini evolutivi l’allarmismo paga di più del sottovalutare i problemi – osserva Gottschall – Scambiare un serpente per un rametto può ucciderci, l’inverso ci spaventa soltanto ».
Altrettanto utile alla prosecuzione della specie è la socialità : e anche a questo riguardo le storie sono importanti: gli esperimenti di Uri Hasson dell’Università  di Princeton mostrano che l’attività  cerebrale di chi ascolta una storia si allinea con quella del narratore, tanto che in molti casi gli uditori più attenti anticipano quanto verrà  detto. Miracoli dell’identificazione. «Per John Tooby e Leda Cosmides, essendoci evoluti da organismi che avevano come unica fonte di informazione l’esperienza individuale, i nostri sistemi cognitivi funzionano meglio quando trattano qualcosa che le assomiglia – sottolinea Gottschall – Ossia le storie». E poi la narrativa soddisfa un’esigenza primaria: sapere quello che stanno facendo gli altri. «Alle api basta l’olfatto per capire se un loro simile è un fuco o un’ape operaia, i primati invece devono tenere a mente strutture sociali molto complesse, ricordare quali sono gli elementi dominanti del gruppo, e come comportarsi con loro e con gli altri». Ecco perché noi primati siamo così impiccioni, e perché ci avvincono di più le storie che contengono amore e conflitto.


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