Vent’anni di errori, Orfini tra critica e vizi di famiglia

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E presenta compiutamente la weltanschauung dell’area politica Rifare l’Italia, di cui pubblica in calce il documento iniziale. Con le nostre parole. Sinistra, democrazia, uguaglianza (Editori Internazionali Riuniti, 225 pagine, 16 euro e 90) è una rilettura critica di vent’anni di errori della sinistra di derivazione Pds, nata (male) dalla Bolognina e finita peggio. L’analisi parte dal presente, dal disastro della Grecia, per risalire alle origini della crisi, ai teorici e ai governi liberisti, quelli del mercato che si autoregola ma che poi chiamano gli stati a salvare le banche. Il modello è fallito, i suoi adepti seguono idee palesemente zombie. Non c’è un modello passato da ripristinare, ma uno futuro da costruire, dice l’autore, ispirandosi anche al saggio Il lavoro prima di tutto di Stefano Fassina, altro frontman della corrente del neolaburismo. Ma a Orfini interessa tornare sulla storia dei suoi, risalire alla ‘svolta’ in cui quella sinistra inizia a perdere «una visione autonoma», subisce una «mutazione genetica» e si autoconvince a «una rappresentazione della Prima Repubblica dominata dalle categorie interpretative del consociativismo e della partitocrazia» senza capire che farlo «comportava negare in premessa il progetto di ricostruire una moderna democrazia dei partiti». Da lì procede – facciamo dei salti – verso l’innamoramento blairiano, le esperienze uliviste-unioniste: il filone è sempre l’antipolitica e la sindrome di Stoccolma, ovvero la subalternità  a quelle idee di cui oggi «misuriamo gli effetti catastrofici». Fino al partito di Walter Veltroni, liquido (Veltroni nega di averlo teorizzato, ma ha il torto di essersi lasciato appiccicare l’etichetta coniata e regalatagli da un giornale berlusconiano, dona ferente ) e marchionnista, che per Orfini è un po’ il fondo. Fino al Pd odierno ridotto a invocare e sostenere il liberista Monti, ma qui Orfini sfuma le responsabilità  di Bersani, a cui attribuisce invece il merito di aver risolidificato il Pd. Il «libriccino» è uno strumento della cruciale battaglia interna in corso in quel partito, il cui esito segnerà  il destino, sia consentito, del paese che si appresta a governare. Ma è interessante l’autocritica che svolge, la revisione delle stesse matrici culturali che hanno affascinato questi giovani turchi oggi sostenitori dell’umanesimo neolaburista. L’idea che il «riformismo di governo» e senza popolo (D’Alema) avrebbe saputo da solo trasformare la società ; l’idea che bastava essere «insider» della nuova era flessibile per dominarla (Amato). L’autore ammette di essere stato della partita, pur giovanissimo, e di fatto invita la classe dirigente che ha condotto quel pezzo di sinistra alla subalternità , a farsi da parte. Ma uccidendo il padre, Orfini resta erede di alcuni vizi di famiglia. Come, ad esempio, il tic di considerarsi unica sinistra. E così tra una citazione di Tacito, una della serie tv Fringe e una di Gramsci di Togliatti (il cui discorso sull’art.7 viene messo in appendice) Orfini proprio non riesce a ricordare che mentre la sua «sinistra» si faceva abbacinare da Blair, in Italia ce n’era un’altra, o delle altre, intellettuali e militanti, che davano battaglia contro la precarietà , perdendola grazie al contributo attivo della sinistra «flessibile». Orfini quasi non se ne accorge, se la cava a buon mercato liquidando il populismo dolce di Vendola, o la presunta rissosità  della sinistra unionista, che è un po’ un luogo comune (il primo Prodi cadde da sinistra, ma fu anche il Prc spaccandosi a tenere in piedi la legislatura; l’ultimo Prodi non è caduto da sinistra). Non è un caso che quando parla del disastro greco, Orfini cita un’immagine bella e disperata di Manolis Glezos, «novantenne partigiano che sfidò la morte per ammainare la bandiera nazista dall’Acropoli». Ma perché non ricordare poi che Glezos è diventato l’icona di una coalizione di sinistra, Syriza, passata in pochi mesi dal 5 al 26%, ai danni di quel Pasok che è partito quasi fratello del Pd? Ed è un peccato che questa sinistra neolaburista rischi di riscivolare nell’idea dell’autosufficienza dell’epoca del pensiero unico. Le vicende di Monti sono un esempio perfetto: l’ingranaggio stritolante del fiscal compact peserà  in termini di tagli e rigore per i prossimi vent’anni. E il Pd lo ha votato senza tante storie giovedì scorso al senato nella presunzione che quando governerà  ne potrà  dare un’interpretazione socialmente meno macellaia: ma appunto, una presunzione. Sarebbe meglio fare qualcosa di sinistra ora. Per non rischiare di dovere scrivere un libro, ancorché bello, fra vent’anni.


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