Alla ricerca della città  emozionale e socialmente sostenibile

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Le proposte progettuali più rilevanti e le riflessioni critiche più originali sull’architettura si trovano (come è ormai consueto) nei padiglioni nazionali ai Giardini di Venezia. Le preferenze di chi scrive vanno al Padiglione Britannico che, con titolo «Venice Takeway», espone una serie di progetti sparsi per il mondo, in polemica con l’establishment del Regno Unito. Si va dall’«architettura aberrante» della scuola prefabbricata di Leonel Brizola, Darcy Ribeiro e Oscar Niemeyer, che dal 1980 fa fronte al fabbisogno di istruzione in aree urbane emarginate del Brasile, alla provocatoria «architettura di carta» di Alexander Brodksy e Utkin Ilya di Mosca; dal «nuovo villaggio socialista» a Pechino di Darryl Chen, alternativo alla forma urbana occidentale adottata in Cina per espandere le proprie città , al «quartiere galleggiante» IJburg di Amsterdam, modello di sostenibilità  e di una eccellente socialità . Obiettivi quest’ultimi perseguiti anche da Toyo Ito e illustrati nel padiglione giapponese, dove è esposto il progetto «Home-for-all» a Rikuzentakata: piccole case in legno ideate per la fase transitoria della ricostruzione post-tsunami. Ito ha infatti ideato un’architettura speciale per l’«incontro di menti e cuori» delle comunità  colpite dalla tragedia giapponese concepita coinvolgendo chi le abiterà  nel processo progettuale. Un principio estraneo, ad esempio, ai progettisti che realizzarono gli anonimi agglomerati metropolitani fotografati da à‰ric Lion, ospite al Padiglione francese: quelli dei «Grands et Ensembles» della banlieue parigina che oggi attendono di essere urgentemente riqualificati. Anche il Padiglione della Germania dal titolo «Architecture As Resource» propone di valorizzare ciò che esiste attraverso un processo che si deve compiere applicando il modulo delle tre «R»: riduzione /riutilizzo /riciclaggio.
All’immanenza degli scenari delle metropoli europee si contrappongono quelli più difficili da immaginare, come la nuova città  nel deserto prevista dal megaprogetto idraulico «Olmos» in Perù: un tunnel di 20 km che per la prima volta, attraverso le Ande, porterà  l’acqua dal bacino amazzonico nel deserto costiero del Pacifico; oppure gli insediamenti diffusi nelle regione artica che nel padiglione della Danimarca si ipotizzano «possibili» da realizzare vista la quantità  di risorse minerarie della Groenlandia. In entrambi i casi si tratta di fughe in avanti che da sempre impegnano le menti degli architetti, ma che coesistono anche con programmi più pragmatici e realistici. Un esempio per tutti è dato dal concorso di idee dal titolo «(UN)Restricted Access» che Architecture for Humanity presenta a Palazzo Bembo per la riconversione in spazi civici e in nuove funzioni sociali delle strutture militari abbandonate nelle diverse aree di guerra sparse nel mondo. I numerosi progetti pervenuti hanno dimostrato l’importanza del tema a riprova del ruolo che l’architettura può ancora svolgere nel dare soluzioni efficaci e autentiche per migliorare la vita degli uomini anche in condizioni prima disperate. 
Denso di impegno politico e sociale, infine, è il contributo offerto dal padiglione degli Stati Uniti con un centinaio di progetti che con il titolo «Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good» intendono rendere la città  più «accessibile e inclusiva» attraverso strategie di pianificazione non convenzionali e multidisciplinari e con programmi mirati a una ridotta scala urbana. Proposte concrete che si traducono in azioni dirette dei cittadini (senza bisogno di «nostalgia di futuro» come si propone invece il padiglione italiano) guardando all’immediato poiché le questioni che la città  ci pone sono urgenti e vanno risolte adesso.


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