Anche l’Asia ha paura

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Giù il settore manifatturiero. Esportazioni in netto calo. Le economie asiatiche tirano il freno e fanno temere che la crisi in Europa e negli Stati Uniti possa contagiare anche quella “fabbrica del mondo” che sembrava non doversi fermare mai.
Il mese scorso la Corea del Sud ha effettuato l’8,8% di spedizioni in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il Giappone ha realizzato la performance peggiore dallo tsunami del 2011. Il manifatturiero in Australia è sceso del 6,9% e ha toccato il livello più basso degli ultimi tre anni. L’economia di Taiwan si è contratta del doppio (0,16%) rispetto alle previsioni. 
In Cina l’indice Pmi (“purchasing managers index”, quello che misura la produzione industriale) a luglio è sceso al 50.1%, dal 50.2% di giugno (la linea di demarcazione fra espansione e contrazione è fissata al 50%). Si tratta del risultato peggiore dal novembre 2011. 
Le autorità  di Pechino attribuiscono i dati negativi pubblicati ieri a «fattori stagionali», come le alluvioni che il mese scorso avrebbero paralizzato numerosi cantieri (metropolitane, strade, edilizia), ma Cai Jin, vice presidente della «China federation of logistics and purchasing», ha ammesso al quotidiano China Daily che «la tendenza al ribasso è tuttora in opera». 
Il governo invece ha fiducia che le cifre indichino che la seconda potenza economica del Pianeta procede secondo i ritmi pianificati dal Partito comunista (Pcc). I dati di luglio segnalano “che l’economia del Paese si sta stabilizzando” ha dichiarato Zhang Liqun, del Centro di ricerca sullo sviluppo del Consiglio di Stato. 
Nel secondo trimestre del 2012, l’economia cinese è cresciuta del 7,6%, il risultato peggiore dal quarto trimestre del 2009, quando fece registrare un +8%. Per stimolare la produzione, negli ultimi mesi le autorità  hanno varato una serie di provvedimenti tra i quali la riduzione delle riserve valutarie obbligatorie per le banche e progetti infrastrutturali.
Gli economisti si domandano quanto di questo rallentamento sia attribuibile a fattori «congiunturali» (il crollo della domanda di prodotti «made in China» da Europa e Stati Uniti) e quanto invece derivi da mutamenti strutturali dell’economia nazionale. Nella sua ultima analisi apparsa su The Diplomat, Barry Eichengreen ha sostenuto che sebbene la debolezza dell’economia mondiale abbia un’influenza rilevante, bisogna mettere l’accento sul cambiamento di quella cinese. Secondo l’economista dell’Università  di Berkeley (California), l’invecchiamento della popolazione (con la relativa riduzione della forza lavoro disponibile) e gli aumenti salariali ottenuti dagli operai negli ultimi tempi stanno aumentando i costi di produzione nella Repubblica popolare e orientando molte multinazionali a spostarsi in altri paesi asiatici, dove il prezzo del lavoro è minore. Eichengreen sostiene inoltre che il rallentamento della produzione abbia, di fatto, spedito in soffitta il piano di «riequilibrio» – di un’economia finora tutta incentrata sull’export – col quale il governo mirava a sviluppare i consumi interni. L’altro ieri in una riunione del Politburo – l’organismo di 25 membri che rappresenta il secondo consesso decisionale più importante del Pcc – la crescita è tornata al centro dell’azione di governo. Lo reclamano le grandi industrie di Stato, come quelle dell’acciaio, che chiedono azioni immediate in favore delle esportazioni. Insomma, alla vigilia del suo 18° congresso, con un dietrofront che segnala ancora una volta l’adattabilità  del Partito al mutare delle condizioni, la parola d’ordine tornerebbe a essere «spendere in investimenti», per «stabilizzare la crescita» su livelli al di sotto dei quali è considerato pericoloso scendere (per la stabilità  sociale), invece che per favorire la domanda interna. 
Assieme ai nuovi dati sul rallentamento dell’economia nazionale, ieri sono arrivati quelli sui milionari, che hanno raggiunto la cifra record di 1,02 milioni. Secondo l’ultimo «Hurun report», tra di essi ci sono 63.500 miliardari. La maggior parte dei milionari cinesi è concentrata nelle aree del sud e dell’est del Paese (quelle più industrializzate) e nella capitale, dove i paperoni sono 179.000.


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