APPLICARE LA LOGICA AL DISCORSO PUBBLICO

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«Il governo aumenta l’Iva per non alzare le tasse», titolava qualche tempo fa un sito web. Ma l’Iva è una tassa, o no? «Il politico x, di destra, ha rubato, d’accordo, ma anche il politico y, di sinistra, ha rubato!» (è il classico tu quoque, argomento-base del berlusconismo): ma allora x non è un ladro, dal momento che anche y lo è? Due ladri sono meno di uno? Sono esempi ben noti. Tutti conoscono ormai le clamorose e strategiche insensatezze che hanno dominato il dibattito pubblico italiano recente. Anche i paesi di lingua inglese però non se la cavano molto bene, come dimostra Julian Baggini, in Do They Think You’re Stupid? (Granta, 2008), vasto repertorio delle assurdità  proferite da politici e personaggi pubblici inglesi e americani.
Alcuni commentano queste circostanze citando Tony Judt, che in Guasto è il mondo (Laterza) registrava il declino mondiale delle leadership. Altri rilanciano il classico:
it’s democracy, baby!; vale a dire: se prevale il peggio, è perché è un peggio persuasivo, accattivante, affascinante, e non vale lamentarsi.
Ma queste teorie forse mancano il punto principale, e il più semplice, ossia il fatto che la formidabile mancanza di timidezza logica (inconsapevole o strategica) di alcuni discorsi pubblici ha lo scopo di rivolgersi a qualcuno. Ed è solo supponendo in questo qualcuno una correlativa formidabile ignoranza, o distrazione, o disaffezione alle questioni logiche, che si può sperare di far passare argomenti insensati o zoppicanti.
Chi insegna a vedere l’insensato, e anzitutto trasmette la «sensibilità  alle contraddizioni», è quella disciplina o area di studio che la tradizione chiama “logica”. Ma già  soltanto il termine “logica” specie nella nostra cultura, suscita perplessità .
Questa resistenza si è in parte attenuata, per varie ragioni. Ma l’assetto culturale a cui ha dato forma è ancora attivo. Ancora oggi la logica è una disciplina enormemente trascurata. Una base di logica viene insegnata alle superiori come voce della matematica, dunque in modo irrelato. Il
critical thinking, una specie di logica informale elementare piuttosto diffusa nei paesi di lingua inglese (i riscontri di Baggini ci dicono però che non funziona molto bene), inizia ad avere diffusione anche da noi, ma in modo incerto e discontinuo. In senso stretto, i corsi di logica sono di livello universitario, e riguardano solo gli studenti di matematica e di filosofia (non tutti). La ricetta dunque sembrerebbe essere semplice: si estenda e si potenzi l’insegnamento della logica, e avremo un risanamento istantaneo del dibattito pubblico. Ma qui, proprio qui, incominciano altre resistenze. E la prima e più importante credo sia la seguente: siamo sicuri che “la logica”, così come oggi viene normalmente insegnata, sia davvero in grado di svolgere questo delicato e complesso compito di edificazione del linguaggio comune? A occhio la risposta è semplicemente: no. Non è affatto chiaro perché mai le ingegnose dimostrazioni metalogiche che popolano i manuali tradizionali dovrebbero e potrebbero avere ricadute interessanti per la vita individuale e collettiva.
È chiaro che non si tratta solo o semplicemente di potenziare quel che di fatto c’è, ma occorrono riforme e riconsiderazioni dei contenuti e dei metodi di insegnamento della logica. E due sarebbero le prime operazioni necessarie, per portare la logica alla sua efficacia pubblica: riallacciare più strettamente i suoi legami con l’uso comune del linguaggio, e con lo studio dell’argomentazione; far valere la continuità  tra la logica «classica», con il suo apparato tradizionale di regole, e le logiche «non classiche», che spiegano come ragionare anche quando, per esempio, i famosi principi di non contraddizione e del terzo escluso non sembrano funzionare.
La buona notizia è che queste tesi iniziano ad essere condivise. In particolare due manuali: Sweet Reason. A Field Guide to Modern Logic, di James Henle, Jay Garfield e Thomas Tymoczko (Blackwell), e il libretto di Logica di Graham Priest, la cui prima pubblicazione è del 2000, e che oggi viene finalmente tradotto dalla casa editrice Codice, sono un buon indizio di questa svolta. Sweet Reason offre tutto quel che è essenziale per ambientarsi con i formalismi e le tecniche della logica tradizionale, ma dà  della logica un’immagine aperta e problematica, esattamente nelle due direzioni indicate: approfondendo i rapporti con il ragionamento comune, e facendo vedere bene come le regole logiche a volte abbiano applicazioni insidiose e violazioni inaspettate. Quanto alla piccola Logica di Graham Priest, meriterebbe un discorso a parte, vista l’estrema importanza del suo autore, e il rumoroso silenzio dell’editoria italiana su di lui (in effetti è questo il suo primo libro tradotto qui). Ma basti per ora considerare che una rapida lettura di questo agile volumetto potrebbe portare all’istantanea smentita di tutti i luoghi comuni sulla venefica astrattezza e irrilevanza del lavoro logico. Priest è un logico «paraconsistente », ossia ritiene che alcune contraddizioni siano accettabili: ma — si noti — non quelle in virtù delle quali due ladri sono meno di uno e aumentando una tassa si riesce mirabilmente a non alzare le tasse. Dunque ecco la «sensibilità  alle contraddizioni»: saperle distinguere, evitando di tollerare quelle inaccettabili, mentre ci si sforza inutilmente di eliminare quelle inevitabili.
La discussione naturalmente è aperta, ma inizia a delinearsi della logica l’immagine di un canone aperto e duttile, legato alla realtà  dei nostri confronti discussivi. Sarebbe utile che i filosofi, specie quelli coltivati all’avversione idealistica e heideggeriana per l’arte del logos, fossero disposti a riconsiderare il problema, e se credono, a rinegoziare il significato stesso del termine “logica”, perché le antiche resistenze siano messe da parte.


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