Il biografo degli Stati uniti d’Amnesia

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I suoi primi otto romanzi Gore Vidal li pubblicò ancor prima di compiere trent’anni: raffiguravano per lo più giovani coinvolti in storie di amicizia e di amore, corrotti dal conformismo della società  americana e per questo destinati allo scacco nella ricerca della libertà  personale. Anche se aveva iniziato scrivendo poesie che in età  più matura definirà  con distanza «didattiche», l’esordio vero e proprio si compì a diciannove anni, con L’uragano, il primo romanzo americano di guerra scritto da un reduce. 
Ben diverso fu l’impatto de La statua di sale, parzialmente autobiografico, fatto uscire nonostante il parere contrario degli editori, che raccontava di amplessi tra maschi sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, un tema all’epoca inaccettabile. Vidal venne accusato di voler sporcare le gesta degli eroi della Normandia, il Times lo ignorò rifiutandosi per anni di recensirlo (salvo poi dedicargli una copertina) e il nonno, senatore democratico a Washington, vide affondare la carriera politica del nipote che stava predisponendo con solerzia. A scioccare fu soprattutto l’apparente tranquillità  con cui veniva rivelava la presenza di un mondo omosessuale nelle pieghe della vita di un soldato, letterariamente ispirato all’Hans Castorp di Mann: avrebbero continuato a farlo a pezzi se non fosse apparso poco dopo il «rapporto Kinsey», dove si affermava che il 37% dei maschi americani aveva avuto rapporti sessuali con altri maschi. Più tardi, pensando al milione di copie vendute nelle edizioni paperback, Vidal ricordava con orgoglio i suoi lettori: «Cowboy, operai del Sud, contadini del West, marinai, commessi viaggiatori; non i banchieri di New York». 
All’inizio degli anni Sessanta si trasferì a Roma e vi passò, con lunghi ritiri alla Rondinaia a Ravello, quasi mezzo secolo, un cambio di residenza che alcuni lessero come un gran rifiuto; la scusa era di dover consultare la biblioteca dell’Accademia Americana, sul Gianicolo, per quello che sarà  il suo capolavoro Giuliano, per il quale disse di essersi rifatto al concetto fichtiano di einfà¼hlung, cioè la capacità  di farsi strada nel passato come fosse un paese straniero. Ancora una volta – come nell’antecedente Messia (1958) e come sarà  successivamente in Creazione (1981), esaminava la formazione di un movimento religioso secondo la triade intelligenza/amore/potere, qui attraverso le memorie di Giuliano l’Apostata, imperatore romano che fu oggetto di un lungo odio in Occidente perché aveva tentato di ripristinare il culto pagano. 
In Italia, Mario Praz fu il primo ad accorgersi di lui: «Scrive dei morti come se fossero vivi e dei vivi come se fossero morti»; il primo a ricordarsi, dopo un periodo di oblio, fu Elido Fazi, che volle ripubblicarlo interamente; Vidal ricambiò, suggerendo all’editore romano di leggere il manoscritto, inedito anche negli Usa, del Codice da Vinci di Dan Brown, che ha poi arricchito il bilancio della Mondadori. Nel pieno della contestazione sessantottina diede alle stampe un libro dissacrante e divertentissimo, Myra Breckinridge (a cui seguì Myron, 1974) in cui compare il primo protagonista transessuale della storia della letteratura – «Io sono nata per essere una stella, e oggi ne ho tutta l’aria», è l’incipit -, e con cui l’autore erodeva i limiti della tolleranza sessuale nella società , prendendosi gioco del sogno americano: anche la vena satirica, se ben irrorata dall’esercizio dell’intelligenza, era per lui una delle chiavi per indagare la natura del potere, come questo si riflette sugli uomini e sulla società . Dagli anni Settanta cominciò l’opera monumentale sulla creazione e distruzione della repubblica americana, composta da sette volumi – Burr (1973), Lincoln (1984), 1876 (1976), Impero (1987), Hollywood (1990), L’età  dell’oro (2000), Washington, DC (1967) – e ispirata dalla volontà  di testimoniare la storia e la politica del proprio paese a una platea di lettori a cui «arrivava solo propaganda», a cominciare dagli scolari. Il ciclo, che parte dalla promessa democratica degli albori per arrivare al dopoguerra, non ha nulla di celebrativo: non solo i Kennedy ma anche i padri fondatori come George Washington o Thomas Jefferson sono figure di avidi opportunisti che tentano solo di proteggere le proprie fortune. In questo modo il nativo di West Point (1925) si faceva critico della decadenza del suo paese e insieme si costruiva la fama di Cassandra dell’Impero, divenendo il biografo degli Stati Uniti, o «degli Stati Uniti dell’Amnesia», secondo la formula che lui stesso adottò, stendendo saggi (La fine della libertà , Democrazia tradita, ecc.) tanto coraggiosi nella difesa delle libertà  quanto lucidi e impietosi nella denuncia della stoltezza, malafede dei governanti. 
Freddo e ironico, nella sua biografia (Palinsesto, 1996, Navigando a vista, 2006) il grande maestro del romanzo storico americano ha dato una visione di sé come celebrità  popolare a suo agio con i media, di statista mancato, olimpico e mondano – parti senza le quali non potremmo comprenderlo appieno. Calvino lo definì «un romanziere al cubo» per la sua capacità  di impadronirsi dei generi, per i critici era un esperto delle tecniche postmoderniste (in Duluth, 1983) anche se disprezzava gli autori americani che ne facevano uso: è stato, da realista diffidente, la coscienza critica dei fallimenti della nazione americana, con una intelligenza così penetrante e viva che la malattia degli ultimi anni non avevano indebolito, come può testimoniare chi ha avuto la fortuna di incontrarlo.


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