LA MELA AVVELENATA

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Dall’altra parte c’è la società  sudcoreana che ammette di essersi ispirata ai prodotti della Apple ma dice che i programmi sono stati invece sviluppati autonomamente. Un processo condotto a colpi di esperti e di discussioni sulle differenze tra imitazione, riproduzione, copia e originale. E che ha irritato il giudice Lucy Koh, che ha interrotto un avvocato della Apple, chiedendogli: «Ma vi siete fatti di crack?». 
La posta in gioco è il futuro del mercato dei telefoni cellulari di quarta generazione e dei tablet. Ma sullo sfondo campeggia la crisi economica, la perdita della «spinta propulsiva» dell’high-tech nell’economia statunitense e la crescita delle imprese cinesi e sudcoreane. Che non vogliono più svolgere il ruolo di «imitatrici» e aspirano a diventare imprese globali a tutti gli effetti. Dopo le arringhe degli avvocati parola alla giuria. La sentenza è annunciata la prossima settimana. Lo scontro tra Apple e Samsung sarà  registrato negli annali del diritto sulla proprietà  intellettuale come un vero rompicapo. Mentre in quelli di storia della tecnologia rischia di passare come il processo che ha avuto il potere di modificare un settore ancora trainante della malconcia economia statunitense. 
Non è un mistero che le imprese high-tech hanno perso molto della loro forza propulsiva. L’entrata in borsa di Facebook si è rivelata un flop; Microsoft è in affanno; Google continua la sua marcia, ma il mercato pubblicitario è al ribasso. Solo Apple continua a crescere a ritmi sostenuti. Infine, la crescita di Samsung è il simbolo dell’entrata in campo di imprese che hanno deciso di smettere di fare la parte delle «imitatrici» per diventare imprese globali a tutti gli effetti. D’altronde, il Pacifico sta diventando uno dei nodi principali del capitalismo mondiale, con la Cina che ha indicato il settore high-tech e Internet come settori strategici della sua volontà  di diventare una superpotenza economica mondiale. Nell’aula di tribunale si gioca quindi una partita che val al di là  delle due imprese. C’è appunto la questione se la proprietà  intellettuale sia una forma di governo indiretta per regolare la concorrenza tra imprese; c’è il ruolo della tecnologia informatica per uscire dalla crisi economica; c’è infine il rapporto tra imprese e l’outsorcing su cui prosperano i profitti. Nell’aula del tribunale americano ci sono però due protagonisti.

L’ispirazione violata
Da una parte c’è la Apple con i suoi telefoni cellulari di quarta generazione, che fanno di tutto, dalle telefonate alle foto alla navigazione in Rete. Il loro nome in codice è iPhone, utilizzano la tecnica touch screen e sono considerati un buon prodotto tecnologico. Per di più è stato «premiato» dal mercato al punto da essere tra gli smartphone più venduti al mondo. Ma Apple ha anche messo sul mercato il suo fratello maggiore, l’iPad, punto di congiunzione tra computer e telefonia cellulare. La società  fondata da Steve Jobs ha da sempre una politica fortemente proprietaria sui suoi programmi informatici. Ogni cosa è brevettata o sottoposta alle leggi sul copyright. In gergo, i prodotti Apple sono «blindati» e non concedono nulla alla logica del software aperto, scelta invece dal suo concorrente più diretto, Google. Dall’altra parte c’è la Samsung, impresa sudcoreana che produce manufatti tecnologici simili a quelli della Apple. Le sue casse sono però riempita anche dalle produzioni per conto terzi. È cioè scelta dalle imprese per produrre componenti specifiche. Tra i suoi committenti c’è anche la Apple, con la quale ha un rapporto pluriennale di «collaborazione», al punto che la società  statunitense ha più volte proposto di consolidare il rapporto economico attraverso una partecipazione azionaria incrociata. Proposta che ha incontrato le resistenza della società  sudcoreana, da sempre contraria a far entrare «stranieri» nella sua stanza dei bottoni.

A colpi di esperti
Tutto è andato bene, fino a quando i prodotti della Samsung hanno cominciato a vendere molto bene. Il suo tablet, così come i suoi telefoni cellulari hanno un poco eroso le quote di mercato della Apple. Inoltre, le tecniche usate per produrli hanno moltissimi punti in comune, dal touch screen alla possibilità  di elaborare con pochi movimenti delle dita le foto scattate dai telefoni cellulari. Per la società  di Cupertino, questo è stato possibile perché Samsung ha violato i brevetti in suo possesso. Da qui la denuncia di violazione delle leggi sulla proprietà  intellettuale. A presiedere il processo il giudice Lucy Koh, che sin dalle prime battute ha invitato le due parti a trovare un accordo, incontrando però la determinazione delle due società  ad andare avanti, convinte, entrambe, di poter portare prove a sufficienza in loro favore. E l’aula del tribunale è diventata un mix tra un’aula universitaria e di un seminario tecnologico. Come testimoni sono stati chiamati designers, ingegneri, giuristi esperti in proprietà  intellettuale, economisti. 
La Samsung ha subito specificato che i suoi prodotti si sono sì ispirati a quelli della Apple, ma che le tecniche e il software applicativo adottati erano già  state sviluppate, su sua commissione, nei laboratori di ricerca della Mitsubishi. La Apple, dal canto suo, ha sostenuto che più che un’ispirazione, quella di Samsung è niente altro che una copia bella e buona. E che la violazione della proprietà  intellettuale è un attentato al sacro istituto della proprietà  privata.
Nessuno, però, poteva sospettare che durante il dibattimento emergesse la fitta trama di alleanze che è alla base di questo settore. È stato confermato, ad esempio, il patto di ferro tra Apple e Microsoft per non pestarsi i piedi nei settori dove le due società  primeggiano. Allo stesso tempo, la collaborazione di Samsung con Google, che ha più volte dichiarato che le accuse di Apple sono prive di fondamento, perché molti degli smartphone della Samsung usano Android, il software sviluppato dalla società  del motore di ricerca. E cosa più interessante è che ogni iPad che venduto porta nelle casse della Apple più di cinquecento dollari di profitto, segno che ai produttori di base va una miseria rispetto a quanto viene venduto il manufatto tecnologico. E Samsung non è da meno, visto che anche i suoi prodotti sono pagati ai subfornitori dieci, venti volte in meno a quanto sono venduti.
Ma a infastidire il giudice non è stato apprendere che le fortune delle due imprese sono gli sweetshop cinesi, thailandesi, malaysiani, dove le condizioni di lavoro sono quasi schiavistiche. Ad irritare Lucy Koh è stata la molteplicità  dei testimoni e la quantità  di documenti presentati, tutti incentrati su sottili distinzioni tra ispirazione e riproduzione, tra copiare e imitare, al punto che ha fermato un avvocato della Apple, chiedendo: «Ma che vi siete fatti di crack?». Da qui l’invito a trovare un accordo. A questo punto, ieri, sono entrati in ballo gli amministratori delegati delle due società , Tim Cook e Kwon Oh Hyun. In un incontro durato dieci ore hanno provato, senza riuscirci, a raggiungere a un accordo. A questo punto il giudice ha stabilito una prima agenda dei lavori. La parola passa agli avvocati per le arringhe finali (che si svolgeranno quando in Italia è notte, ndr) per poi chiedere alla giuria di ritirarsi per decidere, anche se ha specificato che la sentenza ci sarà  solo la prossima settimana, colpi di scena all’ultimo minuto esclusi, che potrebbero portare a un accordo in extremis o a un rinvio ulteriore della sentenza. 

Il logo vorace
Sta di fatto che un processo iniziato in sordina, con tutte le parti in causa pronte a chiuderlo senza troppo clamore, è diventato un processo che cambierà  non poco il mercato degli smartphone e dei tablet. I danni chiesti dalla Apple sono di 2,5 miliardi di dollari. Samsung ha documentato che i suoi prodotti non hanno fatto certo diminuire sensibilmente le vendite della società  di Cupertino, ma se il tribunale statunitense darà  ragione alla Apple per la società  sudcoreana sarà  comunque un salasso. C’è un’altra società  che rischia di uscirne male. È Google, visto che molti prodotti Samsung usano il suo software Android. Rischia però anche Apple. Se la giuria si esprimerà  a favore di Samsung, verrebbe rafforzata l’immagine di una società  avida che non tollera concorrenti. Un’immagine contraria a quella che Steve Jobs aveva costruito. Una società  cioè vicina ai consumatori e che cercava il successo attraverso la qualità  dei suoi prodotti. Una sentenza a favore di Samsung invece manderebbe a dire che la qualità  non è monopolio della società  della mela.


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