Aiuti per tre miliardi di euro in 15 anni l’affare americano pagato dagli italiani

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L’affare agli americani dell’Alcoa gliel’hanno fatto fare i politici italiani. Prima cedendo a prezzi stracciati gli impianti dell’alluminio in Sardegna e in Veneto, poi sovvenzionando a carico del contribuente la produzione.
Ora alzando le mani davanti alla decisione della multinazionale di Pittsburgh (61 mila dipendenti in 31 paesi del globo, 25 miliardi di dollari di fatturato) di andarsene in Arabia Saudita dove tutto costa meno, a cominciare dall’energia. Difficile distinguere tra i governi di centro sinistra, di centro destra e di tecnici. Nessuno ha mai chiesto nulla all’Alcoa. O se l’ha fatto non si è fatto sentire.
C’è chi ha calcolato, sulla base di dati della Commissione europea, che in quindici anni al gigante americano dell’alluminio siano andati circa tre miliardi ai aiuti sotto varie forme, altri hanno stimato un miliardo negli ultimi dieci anni. Montagne di soldi, comunque che abbiamo pagato nella nostra bolletta elettrica. Senza garanzie sull’occupazione, sul futuro dei siti produttivi. Senza contropartite. Di certo è stato un business per chi li ha presi gli aiuti. Per l’Italia l’ennesima capitolazione industriale, fatta di improvvisazione, inutili rincorse contro il tempo, mancanza di scelte, miopia politica. L’alluminio dell’Alcoa come il carbone del Sulcis, come l’acciaio dell’Ilva di Taranto, come le auto Fiat di Termini Imerese. Tutte crisi annunciate. Perché da sempre si sa che il carbone inglesiente è troppo carico di zolfo, perché da sempre si sa che l’impianto dei Riva produce tumori, perché da sempre si sapeva che una macchina assemblata nella catena di montaggio siciliana costava mille euro in più di una realizzata in un altro impianto, perché da sempre, infine, si sa che da noi la bolletta elettrica è carissima. Roba nota. Annunciata, appunto. Subita sempre dalla politica. Con i piani energetici annunciati da tutti i ministri dell’Industria ma rimasti sempre sulla carta.
È il 9 gennaio di quest’anno, quando da New York arriva il comunicato dell’Alcoa: «Le attività  negli stabilimenti Alcoa di Portovesme in Italia, di La Coruna e Aviles in Spagna verranno ridotte o fermate: l’obiettivo è quello di completare il piano entro la prima metà  del 2012. Questi stabilimenti sono tra i siti con i più alti costi nell’ambito del sistema Alcoa». Così comunicano le multinazionali quando devono tagliare. Su ogni tonnellata di alluminio il 45 per cento dei costi è rappresentato dall’energia. Troppo. E l’Italia è il paese dove, per tutti, l’energia costa oltre il 30 per cento in più che nel resto dell’Europa. Lo sconto deciso dal governo Berlusconi, infatti, non sarà  rinnovato e l’Alcoa ha deciso di chiudere e andarsene. A Portovesme, in un’area che sta subendo una vera desertificazione industriale, ci sono circa 500 addetti diretti più altrettanti impiegati nell’indotto. Cassa integrazione, mobilità , licenziamento.
Eppure non doveva essere così quando nel 1995 (sono gli anni cruciali delle nostre privatizzazioni) il commissario liquidatore dell’Efim, Alberto Pedrieri firma l’accordo con gli americani per la cessione dell’Alumix. Lo Stato si ritira, vende i suoi gioielli. D’altra parte l’Efim tangentizia è il simbolo del fallimento dei politici-imprenditori della prima Repubblica. Che negli anni hanno creato una voragine senza precedenti nella finanziaria delle partecipazioni pubbliche: 18 mila miliardi di vecchie lire. Gli americani, invece, sborsano 450 miliardi di lire, circa 220 milioni di euro per acquistare gli stabilimenti. Molto di meno degli aiuti che gli arriveranno sotto forma di sconti nella seconda Repubblica.
Dal 1999 al 2005 l’Alcoa, che macina utili, gode di trattamenti privilegiati: tariffe dimezzate per produrre in condizioni competitive. Industria sussidiata dallo Stato. Arriva la sanzione dell’Europa. Ma nel 2008, con il fallimento di Lehman Brothers (dove Alcoa investì cifre impressionanti) cambia lo scenario. Il gigante dell’alluminio annuncia una raffica di tagli, il 15 per cento dei suoi dipendenti. Portovesme resiste, il governo Berlusconi, con il via libera della Commissione europea, convince gli americani a restare altri tre anni con la solita scorciatoia delle tariffe più basse. Intanto cominciano le trattative con i sauditi. Poi il comunicato di inizio 2012. Dice Marco Bentivogli, segretario della Fim-Cisl: «Questa è una storia esemplare di una multinazionale senza responsabilità  e scrupoli, che ha approfittato della svendita del patrimonio industriale siderurgico degli anni 90, ha spremuto come un limone gli impianti, i lavoratori e il territorio e ora ha bisogno di un alibi per gettare via il limone». Appunto.


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