Da havel a Kundera, l’umorismo ha salvato praga

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Se in un anno nella Repubblica Ceca venissero prodotte solo cinque commedie e nessun altro film, quella sarebbe giudicata un’ottima annata per il cinema. Agli occhi dei cechi la scarsità  di umorismo in un film fa parte dei sette peccati capitali, ed è al secondo posto. Un ricercatore polacco, Robert Kulminski, che ha letto tutti i romanzi scritti in Cecoslovacchia dopo il 1945 e ha scritto un libro sulla visione della morte nella narrativa ceca, ritiene che una delle risposte più significative al trauma della morte che offre la cultura ceca sia quella di imbavagliarla mediante la risata.
I cechi vantano un numero incalcolabile di teorie sul senso dell’umorismo e sul riso.
Il riso non cela nulla di gradevole per l’umanità  (Teige, 1928); L’umorismo è un trucco che serve a vedere i fatti rimpiccioliti come in un cannocchiale rovesciato (Capek, 1928); L’umorismo non è ridere, l’umorismo è sapere meglio (Vancura, 1929); Chi ride mostra i denti (anonimo del periodo nazista); Il riso offende gli idioti, ma fa guarire i saggi (Werich, 1968); Così come con il lamento ci si incatena all’attimo presente del proprio corpo che soffre, anche in questo riso estatico non si hanno né ricordi né desideri, ma si grida all’attimo presente del mondo e non si vuole conoscere nient’altro (Kundera, 1978); L’uomo ride quando non si può più permettere altro (Kroutvor, 1981); L’umorismo è l’espressione più dignitosa della tristezza (Kopeckà½, 1993); Il mondo pieno di risate senza humour è il mondo in cui tutti noi siamo condannati a vivere (Kundera, 2009).
Il riso libera dalla paura del diavolo, e liberarsi della paura del diavolo è sapienza. Questo è ciò che emerge dal dibattito sul riso ne Il nome della rosa di Umberto Eco: un romanzo germogliato nella mente dell’autore in seguito al suo soggiorno a Praga durante l’invasione sovietica. Penso che da questo, come da altri dibattiti sull’argomento, si possa ricavare la morale che il riso è potere. Il potere su ciò di cui ridiamo.
A detta di Halina Pawlowskà¡ (scrittrice e conduttrice di programmi tv dal grande successo in Repubblica Ceca, n. d. r.) il riso conferisce alle cose la giusta misura. “Solo a quel punto ciò che è importante, lugubre e grave, sarà  esattamente come deve essere”, ha scritto. Resta il fatto che se da un lato il riso aiuta, dall’altro però travisa. Si può seppellire la sofferenza sotto le risate, ma in questo modo non ci si misura realmente con le emozioni spiacevoli. “E’ vero. Ma io, quelle emozioni, non le voglio,” ammette Halina con franchezza. (…)
Alla Pawlowskà¡ (e ad alcuni altri scrittori cechi in voga) viene rinfacciato di raccontare l’epoca del comunismo – e nella fattispecie il decennio Settanta succeduto all’intervento sovietico del ’68 che trasformò il paese in un ghetto neostalinista – come un periodo piuttosto divertente. Come un tempo libero da dilemmi morali. “Si possono minimizzare i propri complessi, ma non il totalitarismo”.
Una continua pretesa di divertimento è senz’altro di grande giovamento per la salute psichica, osserva lo scrittore Faktor, ma può diventare pericolosa se non c’è alcun contrappeso, se per anni non si fa altro che buttare tutto sul ridere. La realtà  cecoslovacca, vista da fuori, poteva apparire innocua. Gli stranieri avevano infatti la sensazione che un paese dove tutti ridono sempre e con tanto gusto non poteva essere un’antipatica dittatura. E la cosa più deplorevole, agli occhi di Faktor, consisteva nel fatto che se da un lato fare dello spirito era un metodo di sopravvivenza, dall’altro, di fatto, significava prendere le distanze da coloro che cercavano di tener duro, che stringevano i denti.
Ma anche quelli che non andavano a braccetto con il regime erano capaci di colpirlo con l’arma del riso. Tanto per intenderci: verso la fine degli anni ottanta, a parte la celebre Charta 77 (chi la firmava rischiava ripetuti interrogatori, l’espulsione dei figli dall’università , la galera o la condanna – nel caso di intellettuali – a lavorare per esempio come spazzino), avevano preso vita altri movimenti di dissidenza. Ma non di massa. L’attrice praghese Barbora Å tepà¡novà¡, e alcuni suoi colleghi, lanciarono l’idea di creare un movimento anticomunista a cui la gente non avrebbe paura di aderire.
E di che cosa i cechi non hanno sicuramente paura? Di ridere. Nacque così L’Associazione per un Futuro più Allegro. Come esordio l’associazione organizzò la “Corsa lungo il Viale dei Prigionieri Politici per la liberazione dei prigionieri politici”. L’accompagnò con lo slogan: “Oggi noi corriamo per voi, domani voi per noi!”. Dato che la corsa partiva sempre alle 17.00, vuol dire dopo lavoro, vi si univano anche donne con le sporte della spesa in mano e bambini appena ritirati dall’asilo. Nel giro di qualche mese corsero più di mille persone.
Un giorno i membri dell’associazione presero a nolo tutte le barche dalla banchina del fiume. Vi salirono sopra reggendo in mano delle gigantesche lettere. Poi, navigando sulla Moldava, allinearono le imbarcazioni fino a formare la scritta: “Ai remi ci siete sempre Voi, ma oggi ai remi ci siamo noi”.
Dato che tra le numerose fazioni dissidenti c’erano tensioni e rivalità , gli associati invitarono i leader di questi gruppi a giocare nella sabbia. Al grido di “Ciascuno nella propria sabbia” vennero muniti di paletta e secchiello, e dovettero fare delle formine. Quando furono pronte, arrivò a sorpresa un camioncino carico di sabbia che ribaltò il suo contenuto seppellendo lo spazio giochi comprese le formine. L’intento era quello di far capire a tutti quanto fossero farraginosi e inconsistenti i loro battibecchi.
«Quella volta», ricorda Barbora Å tepà¡novà¡, «andammo da Và¡clav Havel. Aveva in casa degli ospiti stranieri, ma noi chiedemmo a sua moglie: “signora Olga, possiamo portare Và¡clav a giocare con il secchiello e la paletta?”. Olga assunse un’aria severa, guardò l’orologio e disse: “D’accordo, ma tra un’ora lo voglio di ritorno”».
Dopo la rivoluzione di velluto gli associati si misero a distribuire ai nuovi politici (nonché ex dissidenti) i cosiddetti “specchietti autocritici”, corredati dalla richiesta: “Dia un’occhiata a se stesso”. Appena seppero che nel Castello di Praga c’erano dei corridoi lunghissimi, che i telefoni erano fuori uso, e che tutti non facevano che correre avanti e indietro, consegnarono al neoinsediato presidente Havel un piccolo monopattino. “E lui, un uomo di corporatura minuta, ci montò su senza pensarci due volte e filò via. Dopo un po’ tornò indietro e mi propose di diventare la sua segretaria”. (Lei accettò).
Al termine del terzo mandato presidenziale venne realizzato il documentario Il cittadino Havel. Uno dei giornali scrisse: “Si direbbe che la cinematografia ceca si sia arricchita di una nuova commedia”. Il più noto professore di teologia ceco, padre Tomà¡Å¡ Halà­k, all’uscita dal film rivelò ai giornalisti: “Davvero non mi aspettavo di sganasciarmi a tal punto”.
Havel stesso, interrogato un giorno cosa ci fosse di male a essere troppo seri, replicò che una persona seria era tremendamente comica.

(traduzione di Marzena Borejczuk)
© nottetempo, 2012


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