GALANTE GARRONE E GLI ULTIMI MOHICANI

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In una lettera a Giorgio La Malfa, che lo aveva invitato a un incontro politico, l’8 maggio del 1989 Alessandro Galante Garrone, il “mite giacobino” (come si definì) della Resistenza, coglieva l’occasione per riaffermare con orgoglio e passione che «qualcosa di quelle idee, di quella fede, di quei propositi», incarnati da Giustizia e Libertà e dal partito d’azione, «è rimasto vivo» e ha dato «qualche frutto alla storia italiana di questi quarantacinque anni». Lo storico e magistrato vercellese, uomo di punta del Comitato di liberazione del Piemonte, protagonista di tante battaglie per un’Italia civile, diceva al figlio del suo amico Ugo La Malfa che «l’essere stato nel partito d’azione, e l’aver partecipato alla Resistenza, mi ha segnato per sempre». Poi, avviandosi a concludere, uno degli «ultimi mohicani» dell’azionismo, come si descriveva con la consueta ironia, non rinunciava a enunciare i problemi «che più mi stanno a cuore».
Ne venne fuori un manifesto politico significativo. Da «vecchio gobettiano, Gielle, e azionista», Galante Garrone indicava intanto a La Malfa la questione costituzionale, da affrontarsi con «limitate e realistiche riforme della Costituzione che non ne intralcino la struttura fondamentale, la ispirazione e i principi scaturiti dalla lotta antifascista». Proseguiva ribadendo «il saldo ancoraggio all’Europa », la «imperterrita difesa della laicità dello Stato e della libertà religiosa e di coscienza», la «indipendenza della magistratura contro qualsiasi indebita pretesa degli altri poteri». E terminava rammentando la necessità di una «inflessibile battaglia a ogni forma di criminalità organizzata » e una «severa moralizzazione della vita pubblica, non a parole». Scriveva queste cose da quasi ottantenne, qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino. Scritte più di vent’anni fa, sono parole di oggi, di attualità evidente.
La lettera a La Malfa è una delle migliaia di documenti, più di 70 mila, che fanno parte dell’archivio del “mite giacobino”, del quale si ricorda con un convegno a Torino, il 14 novembre, il decennale della morte, avvenuta il 30 ottobre del 2003. Riordinato da Riccardo Marchis e dallo staff dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea intitolato a Giorgio Agosti, uno degli amici e dei compagni più cari di Galante Garrone, a fine mese verrà trasferito al Centro studi Piero Gobetti e presto sarà consultabile online. Suddiviso fra le carte di lavoro e la corrispondenza, il fondo rispecchia in modo esemplare le quattro stagioni della vita dello studioso nato a Vercelli nel 1909, lo stesso anno di Norberto Bobbio, di Leone Ginzburg, di Rita Levi Montalcini e di Dante Livio Bianco. Quattro fasi che compendiano il magistrato, l’antifascista e il partigiano, lo storico «per passione civile», come è stato detto, dei radicali italiani e dei giacobini; fino all’opinionista sulle colonne de La Stampa, sul fronte delle battaglie per l’affermazione dei diritti civili e sociali.
Dalle sue carte emerge con forza anche un aspetto poco noto, almeno finora, della personalità e dell’umanità dello studioso di Filippo Buonarroti e di Felice Cavallotti. Nella sezione della corrispondenza, oltre agli scambi epistolari con alcuni dei maggiori intellettuali del Novecento, da Benedetto Croce a Piero Calamandrei, Delio Cantimori, Federico Chabod, Arturo Carlo Jemolo, Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Leo Valiani, Franco Venturi, a George Lefebvre e ad Albert Soboul, ci sono numerose lettere con persone cosiddette comuni che gli sottoponevano i loro travagli. Sono vicende di figli nati fuori dal matrimonio, di persone disabili, di «legioni di cittadini nascosti e dimenticati». Sandro Galante Garrone rispondeva a tutti, facendo seguire alle parole il suo impegno per risolvere i problemi.


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