Se si chiude lo spazio fra politica e diritto. Il radicalismo giuridico di MacKinnon

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Fra gli obiettivi polemici della critica anti-moralista, anti-vittimistica e anti-legalista di Wendy Brown c’è la posizione di Catharine MacKinnon, giurista femminista nota e influente sulla scena internazionale per le sue battaglie contro la pornografia, le molestie sessuali e gli stupri di guerra, di cui per gli stessi tipi Laterza esce Le donne sono umane? (a cura di Antonella Besussi e Alessandra Falchi, trad. di Pia Campeggiani e Francesca Pasquali, pp. 250, 20 E.), una raccolta di saggi del 2006 che si aggiunge alla versione italiana di Only Words del 1993 (Soltanto parole, Giuffré 1999). Anche in questo caso, i saggi che compongono il volume restituiscono pressoché al completo il campo di intervento politico e teorico dell’autrice: l’identificazione delle donne come gruppo sociale de-umanizzato, mercificato e discriminato dal dominio sociale e sessuale maschile; la condanna senza se e senza ma della pornografia come istituzione del godimento fallico e dello sfruttamento delle donne (è di MacKinnon e Andrea Dworkin una bozza di legge dell’83, poi dichiarata incostituzionale, sulla pornografia come violazione dei diritti civili); la rivendicazione della giuridificazione delle molestie sessuali, che prima di diventare reato, sostiene l’autrice, «non avevano esistenza sociale né forma»; l’analisi del ruolo decisivo degli stupri etnici e di altre pratiche di sadismo sessuale nei genocidi, da quello degli ebrei a quello dei Tutsi a quelli perpetrati nella ex-Jugoslavia (da avvocata, MacKinnon ha rappresentato le donne bosniache e croate davanti al Tribunale internazionale, ottenendo il riconoscimento della violenza sessuale come atto di genocidio). E non ultimo, l’appello a misure emergenziali del diritto internazionale contro ogni forma di violenza sistematica sulle donne, «questa guerra quotidiana, questo terrorismo contro le donne in quanto donne che continua giorno dopo giorno in tutto il mondo», e che secondo l’autrice ha le stesse caratteristiche del conflitto asimmetrico e post-statuale innescato dagli attentati dell’11 settembre, e domanda pertanto una risposta altrettanto straordinaria.
Si tratta dunque di una sorta di radicalismo giuridico femminista, che MacKinnon definisce post-marxista («la sessualità  sta al femminismo come il lavoro sta al marxismo») e che taglia corto – troppo corto – con tutta o quasi la teoria femminista del gender e della differenza, in nome di una battaglia per la redistribuzione del potere fra uomini e donne interamente affidata al diritto. Una posizione che paradossalmente, pur mettendo il dominio sessuale al centro del discorso, manca l’analisi sia dei dispositivi peculiari di assoggettamento sia delle forme di soggettivazione che passano attraverso la sessualità ; e si chiude nel ribadimento e nella riproduzione del circuito vittimizzazione-risarcimento-punizione, in cui non c’è alcuno spazio né per il desiderio né per la libertà  femminile, e che Wendy Brown mette giustamente sotto tiro.
Non solo su questo punto, del resto, le posizioni di MacKinnon hanno suscitato negli Usa e ovunque obiezioni e contestazioni almeno pari alla loro influenza (sulla sua analisi della pornografia in Only Words, cruciale la replica critica di Judith Butler del ’97 in Exitable Speech, edito in Italia da Cortina nel 2010 col titolo Parole che provocano, trad. di Sergia Adamo, 265 pp, 14 E). Spiace non ritrovare le coordinate di questo dibattito – di cui oltretutto si è sentito l’eco più o meno consapevole e più o meno ripetitivo nel dibattito italiano dello scorso decennio sulle molestie sessuali, e più recentemente in quello sulla pornografia scatenato dal Berlusconi-gate – nell’introduzione al volume di Laterza, preoccupata più di affrancare il discorso di MacKinnon dalla «tribù femminista» (sic) per riportarlo allo specialismo giuridico che di restituirne le condizioni di emergenza e le ricadute culturali e politiche. E spiace altresì che la stessa politica del diritto di MacKinnon non venga messa a confronto con la critica femminista del diritto e della giuridificazione che in Italia, pur condividendo alcune premesse del discorso di MacKinnon, ad esempio in materia di critica dei criteri liberali della privacy e dell’oscenità  per la regolamentazione dell’aborto e della pornografia, pervengono tuttavia a conclusioni diverse dalle sue, affidando la lotta per la trasformazione alla pratica politica più che alla legge e alle leggi.
Si aprirebbe qui un campo di discussione, oggi tutt’altro che secondario, sulle strategie di traduzione dei testi femministi, sulle tattiche commerciali e accademiche che le condizionano, sulle mappature del dibattito internazionale di cui necessitano e sul bivio che si apre fra una loro neutralizzazione disciplinare e una loro valorizzazione concettuale e politica, quest’ultima necessariamente connessa alla ricostruzione dei loro contesti di nascita e di diffusione. Una ricostruzione che, detto per inciso, avrebbe consentito in questo caso anche di mostrare quanto l’attacco del «nuovo realismo» italiano alla costellazione postmodernista ricalchi oggi le orme del dibattito americano degli anni passati, come ben traspare dall’ultimo saggio, «Postmodernismo e diritti umani», del volume di MacKinnon.


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