Transizione, cercasi sinistra

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Ad esempio, la crisi, che nasce dal fallimento del modello economico-sociale neoliberista affermatosi dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, ha fortemente influenzato il processo d’unificazione europeo, penalizzando le sue possibilità  di successo.
La contraddizione di fondo può essere colta nel fatto che la creazione di una nuova istituzione a livello continentale sia stata guidata da un approccio secondo cui le istituzioni sarebbero un intralcio per i mercati e per lo sviluppo economico-sociale. Eppure, una delle cause strutturali della crisi globale nasce dall’evoluzione asimmetrica che negli ultimi decenni c’è stata nei rapporti stato-mercato, con il secondo che ha esteso la sfera della sua decisioni a livello planetario, «liberandosi» della precedente proficua interazione con le istituzioni rimaste operanti a livello nazionale – per di più indebolite.
La costruzione europea era – e continua ad essere – un progetto potenzialmente efficace quanto pochi altri per il riequilibrio dei rapporti stato-mercato necessario al superamento della crisi. Poiché la globalizzazione dei mercati pone sempre più vincoli alle possibilità  di scelte pubbliche operate localmente, la costruzione di un’istituzione continentale (cui corrisponderebbe il più consistente sistema economico al mondo) consentirebbe d’interagire molto più efficacemente con le forze di mercato interne ed esterne e di realizzare scelte politiche, sociali, ambientali e culturali – anche coerenti alle specifiche esigenze locali – altrimenti impossibili. Ma proprio l’impostazione neoliberista seguita nella costruzione europea ha non solo indebolito il suo percorso, ma ha aggravato la crisi nel nostro continente e nel resto del mondo: dall’iniziale scelta di puntare solo sull’unificazione dei mercati e della moneta depotenziando la politica economica, fino alle decisioni più recenti del fiscal compact e della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che pregiudicano ulteriormente le possibilità  della crescita; passando per l’ideologica autoflagellazione di privare i paesi euro della difesa d’ultima istanza da parte della loro banca centrale, esponendo ciascuno di essi e la stessa moneta comune alla scorribande della speculazione. L’intreccio contraddittorio e controproducente tra l’approccio neoliberista e la costruzione europea ha comprensibilmente suscitato reazioni negative e disillusioni nei confronti della seconda, anche in ambiti progressisti ben attenti e consapevoli rispetto alla necessità  di un riequilibrio tra le scelte operate dai mercati e quelle prese dalle istituzioni collettive.
Le critiche all’Ue di chi a sinistra giustamente sostiene l’utilità  di politiche keynesiane (naturalmente adeguate ai tempi e comunque da non confondere con il paradosso delle buche scavate e riempite spesso richiamato con volgare strumentalità  per sostenere una critica indistinta alla crescita) non possono far dimenticare che sarebbe pressoché impossibile il «keynesismo in un solo paese», mentre sarebbe molto più facile applicare quelle politiche in un ambito come quello dell’Unione europea, con benefici anche per le altre grandi aree economiche. D’altra parte, non è difficile immaginare che una rottura – inevitabilmente traumatica – del progetto europeo e un ritorno ai nazionalismi finirebbe per estendere i contrasti economici anche a livello politico e militare.
La reazione antieuropeista si inserisce in quella più generale – anch’essa non priva di comprensibili motivazioni – che da tempo alimenta la sfiducia nella politica dalla quale, però, scaturisce anche il grave e crescente rischio – particolarmente evidente nel nostro paese – di una degenerazione della democrazia nella tecnocrazia. L’opinione pubblica, pur di fronte alle evidenti responsabilità  dei mercati e della visione neoliberista nel generare una crisi sempre più drammaticamente avvertita, continua a dare molto credito agli uomini e alle strutture decisionali che operano in coerenza a quella visione perché hanno assunto una veste «tecnica» la quale è percepita – o almeno sperata – come più credibile e affidabile rispetto alla politica. Dunque, anche in ambiti di sinistra la disillusione causata dalle negative esperienze della costruzione europea e della politica sta inducendo al loro rifiuto completo, a buttare il bambino insieme all’acqua sporca Alla reazione antieuropeista contribuisce anche un altro atteggiamento contraddittorio. L’adesione alla costruzione europea si raffredda di fronte alla sua pur intrinseca necessità  di procedere ad una devoluzione dei poteri nazionali verso le istituzioni comunitarie. Questo atteggiamento non nasce solo dal persistente nazionalismo più o meno presente nei vari paesi. In ambienti progressisti, la giusta critica alle attuali istituzioni di non avere un sufficiente fondamento democratico spesso copre l’indisponibilità  ad accettare una opinione europea maggioritaria – anche espressa con modalità  democratiche dirette – se difforme dalle proprie posizioni. I pur comprensibili timori presenti in settori della sinistra italiana che in Europa possano definirsi equilibri politici generali non pienamente rispondenti alle loro (nostre) legittime aspirazioni indeboliscono la spinta europeista fino ad annullarla, magari sostituendola con improbabili concezioni di democrazia locale intese non come opportunamente integrative, ma come alternative rispetto alla necessità  di definire democraticamente le scelte riguardanti l’intera collettività  europea. Eppure, almeno nell’ultimo ventennio (ma il periodo si potrebbe estendere), gli equilibri politici, sociali, economici, morali, etici ed estetici affermatisi nel nostro paese non sono stati migliori di quanto mediamente si verificava in Europa.
Se la Sinistra italiana non è stata in grado di contrastare il berlusconismo, risultano poco giustificabili, al suo interno, le posizioni di chi pensa di buttare a mare l’Europa perché, una volta unita, teme che possa essere governata e governarci in base a scelte non «pienamente» di sinistra. Purtroppo, nella sinistra italiana, a tutt’oggi, non emerge un suo programma, che sia almeno in parte convincente per la maggioranza dell’opinione pubblica, che sia tecnicamente coerente e concretamente realizzabile nel contesto politico esistente. Per la verità , di programmi si tende a non parlare affatto.
Per procedere con concretezza al cambiamento è necessaria la consapevolezza delle sue difficoltà , senza però cedere a forme di scoraggiamento politico e disorientamento intellettuale che favoriscono lo svilimento dei propri valori e delle proprie analisi consolidate che, invece, sono riproposti all’ordine del giorno proprio dalla fase storica di transizione che stiamo vivendo.


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