Austerità  e proteste, il british style

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Dopo le elezioni britanniche del 2010, il partito conservatore – i Tory – insieme ai loro alleati di coalizione, i liberaldemocratici – Lib Dem -, avevano annunciato la priorità  assoluta per il paese: tagli draconiani alla spesa pubblica per ridurre il deficit di bilancio. Solo un’azione del genere – veniva detto – ci avrebbe fatto riguadagnare la fiducia dei mercati finanziari e avrebbe permesso al governo di vendere titoli pubblici a tassi d’interesse relativamente bassi. Di fronte a noi c’erano «scelte difficili», momenti dolorosi, ma il ministro delle finanze George Osborne spiegava che eravamo tutti sulla stessa barca.
Quello che non è stato detto, naturalmente, è che il deficit di bilancio si è allargato perché lo stato è intervenuto per salvare dal fallimento banche private con denaro pubblico. Il governo di David Cameron non ha chiamato banchieri e speculatori a pagare il prezzo dei loro fallimenti. Al contrario, la politica di Londra ha iniziato a tagliare con l’accetta le spese sociali. Ad esempio, la società  privata – di proprietà  francese – Atos Healthcare è stata chiamata per passare al setaccio le pensioni d’invalidità  e individuare almeno una metà  di persone che potessero essere «idonee a lavorare». Il quotidiano Daily Mirror ha segnalato che lo scorso anno 32 persone sono morte poco dopo aver ricevuto la comunicazione da parte di Atos Healthcare che avrebbero dovuto cercare un lavoro. Di fronte ai tagli, i lavoratori del settore pubblico sono riusciti a mantenere i posti di lavoro, ma ora hanno una riduzione dei salari reali. E come conseguenza delle «riforme» delle pensioni, dovranno lavorare più a lungo per ottenere poi pensioni più magre.
I giovani – la fascia d’età  che ha votato meno per i conservatori – sono stati colpiti in modo particolarmente duro: ai ragazzi di 15 e 16 anni è stata tolta l’indennità  di mantenimento a scuola, mentre gli studenti universitari hanno visto le tasse triplicate da un giorno all’altro. Il numero di giovani disoccupati è salito a più di un milione alla fine del 2011, ma la cifra reale è sicuramente più alta; il numero dei neet (persone che non stanno studiando, non lavorano e non sono in formazione) è al livello più alto dal 1994, secondo la Tuc, la confederazione dei sindacati della Gran Bretagna. Ma la novità  più scandalosa è stato il workfare: lavori o programmi di formazione cui sono obbligatoriamente tenuti i disoccupati per non perdere l’indennità  di disoccupazione, ma che si traducono nel lavorare gratis in negozi e imprese spesso di proprietà  di multinazionali. Non è stata una sorpresa trovare gli studenti e i giovani all’avanguardia delle proteste dell’anno scorso, con manifestazioni molto dure, come l’assalto alla Millbank Tower, dove si trova il quartier generale del partito conservatore.
Nelle proteste giovanili (e non solo), i social media hanno avuto un ruolo fondamentale nel permettere l’organizzazione di una nuova ondata di azioni dirette e di «attivismo virtuale» che aggira le tradizionali forme di organizzazione politica. Uk Uncut è un gruppo di attivisti che si batte contro le «evasioni fiscali legalizzate» e ha organizzato occupazioni di negozi Vodafone per portare a conoscenza dell’opinione pubblica l’impressionante evasione fiscale dell’azienda attraverso l’utilizzo di conti bancari in paradisi fiscali. I gruppi della campagna Boycott workfare hanno organizzato occupazioni e azioni virtuali che hanno portato molte aziende a prendere le distanze da quel programma. Anche gli attivisti disabili hanno ottenuto una buona visibilità , sia con azioni di protesta – come la messa in scena della «Cerimonia di chiusura dell’Atos» durante le Paraolimpiadi – sia con un’attiva presenza online, soprattutto su blog satirici come Diario di uno scroccone di sussidi. E i manifestanti del movimento Occupy hanno mostrato fisicamente dove si trova il nemico, montando le loro tende nel cuore del distretto finanziario della City, accanto alla sede della Borsa di Londra.
Ma dove sono finiti il movimento operaio organizzato, i sindacati e il Partito laburista, l’opposizione di Sua Maestà ? Ed Miliband, il nuovo leader del Partito laburista (figlio del teorico marxista Ralph) ha fatto poco per giustificare l’etichetta di «Red Ed» (Ed il rosso) affibiatagli dai conservatori. È vero, ha criticato il pacchetto di misure di austerità  del governo, definendole «troppo estese e fatte troppo in fretta», ma si rifiuta di impegnarsi a fare retromarcia su un singolo taglio. I laburisti avrebbero cercato di attenuare gli effetti delle riduzioni di spesa, ma i tagli ci sarebbero stati comunque. E anche con un governo laburista ci sarebbe stato un congelamento dei salari per i lavoratori del settore pubblico, che pure costituiscono una parte fondamentale della base elettorale del partito. Tuttavia, la politica laburista sta sviluppando una linea sostanzialmente keynesiana, con proposte di stimoli per rilanciare l’economia, aumentare la domanda e creare posti di lavoro.
Perfino le organizzazioni imprenditoriali britanniche riconoscono il vuoto lasciato dalla politica del governo, ammettono che l’assenza di una strategia di sviluppo ha sabotato l’economia britannica e che, nonostante tutti i sacrifici, l’indebitamento è aumentato.
La Camera di commercio inglese ha ridimensionato le sue previsioni per il 2012, passando da una crescita dello 0,1% a una caduta dello 0,4% , avvertendo che gli obiettivi di riduzione del deficit del ministro dell’economia richiederanno forse due o tre anni di tagli in più, con la recessione che porta meno entrate fiscali e il deficit che viene finanziato da un debito in aumento. Le richieste della Camera di commercio – una portavoce del business britannico – sono «un limitato aumento del livello di indebitamento per sostenere gli investimenti delle imprese, incentivare la creazione di posti di lavoro e far ripartire l’industria delle costruzioni»; i conti pubblici potrebbero così registrare un deficit di 20-25 miliardi di euro ogni anno fino al 2015. Se confrontiamo questi scenari con l’obbligo del pareggio di bilancio nel 2013 imposto ai paesi euro dal Fiscal compact, è paradossale che il mondo degli affari inglese sostenga politiche ben più keynesiane di quelle introdotte sul continente dalla linea della Germania.
Con critiche di questo tipo da parte delle imprese, il governo di David Cameron risulta sempre più debole e i sondaggi assegnano oggi al Partito laburista un vantaggio del 10%. Sul terreno sociale, tuttavia, i sindacati sono divisi di fronte alla risposta da dare alla crisi. Quelli affiliati al Partito laburista sono rassegnati a proteste simboliche e puntano alla possibilità  di rieleggere un governo laburista. Sotto la pressione della base, il 26 marzo dello scorso anno hanno organizzato una manifestazione di massa, forse la più grande nella storia del paese, ma gli spazi di contrattazione col governo non sono migliorati. Nel novembre 2011 diversi sindacati del settore pubblico hanno lanciato uno sciopero coordinato sul tema delle pensioni ma, nonostante il forte impatto, i vertici dei sindacati si sono come affrettati a smobilitare l’azione e si sono impegnati a riprendere negoziati a livello di categoria con il governo, accettando compromessi al ribasso. La Tuc, la confederazione sindacale inglese, ha annunciato una nuova manifestazione a Londra per il 20 ottobre, ma ha una strategia molto debole o poca voglia di alzare realmente la posta in gioco. Molti sindacalisti militanti chiedono che sia indetto un giorno di sciopero generale, ma i vertici non vogliono mettere il Partito Laburista nella condizione di doversi schierare di fronte a uno sciopero politico.
La crisi economica potrebbe però trsformarsi in una crisi politica, e molte cose potrebbero cambiare in fretta. Le tensioni all’interno della coalizione stano venendo a galla con maggiore frequenza. Il primo ministro David Cameron non riesce ad accontentare i Lib Dem da un lato e i suoi irrequieti parlamentari di destra dall’altro. Il grado di soddisfazione per la gestione dell’economia da parte di George Osborne è sceso notevolmente; il ministro viene ora accusato di aver provocato una doppia recessione che si poteva evitare.
Naturalmente, le possibilità  di ripresa dell’economia britannica sono strettamente legate a quelle dell’Europa nel suo insieme, ma la distanza tra Londra e l’Unione si va allargando. L’esperienza della Grecia rende evidenti le conseguenze autolesioniste delle politiche di austerità  estrema e tra i lavoratori c’è sostegno a iniziative di solidarietà  che costruiscano legami in tutta l’Europa. Ma c’è poca fiducia nella sostenibilità  di lungo termine dell’euro, e pochissimo entusiasmo di fronte all’ipotesi di un’adesione della Gran Bretagna. Anche la richiesta di una maggiore integrazione politica viene accolta con un diffuso scetticismo.
Quanto alle conseguenze negli equilibri politici, il sistema elettorale britannico potrebbe favorire la destra nazionalista del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, che intercetterà  molti voti di protesta alle prossime elezioni. Ma il Partito laburista domina ancora il campo elettorale e otterrà  il consenso di chi vuole mandare a casa la coalizione tra Tory e Lib Dem. Chi vorrebbe un’alternativa più netta alle politiche di austerità  continuerà  invece a impegnarsi più in iniziative di piazza che in strategie elettorali.
* traduzione di Federica Martiny

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Pagine al pepe rosso

Michael Calderbank è co-direttore della storica rivista inglese «Red pepper» (anche on line sul sito www.redpepper.org.uk), un bimestrale «rosso, verde e radicale indipendente» di politica e cultura. È nato sulle orme di «Socialist», il mensile fondato dal Movimento socialista, organizzazione indipendente di sinistra che si formò nel 1987 dopo una serie di conferenze e accolse gli insider e gli outsider del Labour Party, femministe, attivisti neri, sindacalisti, movimenti glbt e verdi sull’onda degli scioperi dei minatori britannici della metà  degli anni 1980. «Red pepper» ha raccolto l’eredità  di quell’esperienza editoriale e nel 1995 grazie a una sottoscrizione che raccolse 135,000 sterline, lanciata sulle pagine a pagamento del «Guardian», esordì nelle edicole. Il suo primo direttore è stato Denise Searle, che aveva anche curato «Socialist», ma per la maggior parte della sua storia, è stato diretto dalla socialista e femminista Hilary Wainwright.


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