HOBSBAWM Lo storico che ha fatto la storia inventando “il secolo breve”

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Un grandissimo storico, capace di sintesi eccellenti, di ampi sguardi comparativi e al tempo stesso di profondi lavori di scandaglio. Dotato di una scrittura avvincente e suggestiva, sorretta da una mole enorme di riferimenti culturali. Uno studioso straordinariamente e felicemente onnivoro, con un talento nello spaziare nei più diversi campi: attento alla società  e ai grandi processi economici, ai simboli e ai rituali, alle utopie e agli orizzonti mentali del quotidiano. “Testimone” altissimo della possibile fecondità  di un marxismo aperto, svincolato dalle ortodossie, ma al tempo stesso dei suoi interni limiti. Questo e molto altro è stato Eric Hobsbawm, che con i drammi del secolo ha fatto i conti sin dall’inizio della sua vita. Nato nel 1917 ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei — la madre proveniva dall’Austria asburgica, il padre da Londra, ove era giunto dalla Polonia russa — cresce poi nell’Austria impoverita e mutilata del primo dopoguerra. Orfano giovanissimo, si trasferisce a Berlino nell’ultimo, tragico periodo della Repubblica di Weimar, aderendo al partito comunista e abbandonando la Germania per Londra dopo l’ascesa al potere di Hitler. Sarà  poi militante del piccolo e settario partito comunista inglese sino al 1956: vi rimarrà  iscritto ma diventerà  semmai – per usare le sue parole – “una specie di membro spirituale del partito comunista italiano, molto più consono alla mia idea di comunismo”.
La gran mole dei suoi studi sul movimento operaio è innovativa sin dall’inizio, sin nel suo porre al centro la storia sociale e culturale della classe operaia, non le sue organizzazioni. E nell’indagare anche, nei suoi primi lavori, le forme primitive di rivolta sociale, da I ribelli del 1959 a I banditi, di dieci anni dopo. Taluni limiti
che questi libri mostrano oggi sono in qualche modo connessi al loro stesso fascino: alla sfida, cioè, di ricondurre fenomeni diversissimi ad alcune grandi chiavi generali, utilizzando anche fonti largamente trascurate sin lì dagli storici (poesie, ballate e così via). In comune con l’“ortodossia” rimane naturalmente l’idea che siamo qui ad una sorta di preistoria, e che solo lo sviluppo industriale permetterà  l’affermarsi di un movimento operaio ideologicamente robusto, capace di dar vita a organizzazioni solide. A questa fase sono dedicati i saggi raccolti in Studi di storia del movimento operaio e poi in Lavoro, cultura e mentalità  nella società  industriale,
di vent’anni dopo: saggi che testimoniano la finezza delle sue analisi e il crescere progressivo della sua attenzione agli aspetti culturali e alle mentalità  delle classi subalterne. Non manca di partecipare, infine, a una monumentale Storia del marxismo a più voci promossa dall’Einaudi.
È questo uno dei filoni principali dei suoi studi, attraversati al tempo stesso da incursioni non usuali: dalla Storia sociale del jazz a un volume curato assieme a Terence Ranger, L’invenzione della tradizione.
Al centro di esso vi sono le forme di “invenzione della tradizione” che si collocano fra Ottocento e Novecento (e all’Europa nel suo insieme è dedicato il suo saggio): processi culturali volti a costruire o ricostruire le identità  collettive di fronte allo sgretolarsi delle società  precedenti, e ai quali concorrono canzoni popolari e cerimonie pubbliche, pratiche sportive e modi di vestire, e così via.
Sono aspetti minori ma non marginali del suo impegno di storico, legato largamente a due progetti complessivi. In primo luogo la trilogia dedicata a un “lungo Ottocento”, che ha avvio all’inizio degli anni sessanta con Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, dedicato alla rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale inglese (di cui fortemente sottolinea – qui e altrove – i costi sociali). L’Ottocento di Hobsbawm si presenta prima di tutto come Il trionfo della borghesia (1848-1875), per citare il titolo italiano della seconda opera. Segue poi L’età  degli imperi,1875-1914, nella quale inizia a inoltrarsi in “quella ‘zona crepuscolare’ fra storia e memoria che si colloca fra il passato come archivio generale (…) e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali”.
Era inevitabile il passo successivo, il confronto a tutto tondo con il Novecento: The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, per citare il titolo originale del suo libro più famoso. Da noi diventa Il secolo breve, con la sottolineatura dall’arco temporale proposto: dalla prima guerra mondiale al crollo dell’impero sovietico. Scandito dall’“età  della catastrofe”, fra le due guerre mondiali; dall’“età  dell’oro” iniziata nel 1945 e interrotta dalla crisi petrolifera del 1973; e infine dalla “frana” dei due decenni successivi. Si concentrano in questo volume i tantissimi pregi del suo lavoro, dalla straordinaria ricchezza dei riferimenti culturali alla affascinante sfida di una interpretazione complessiva, disertata sin lì dagli storici del Novecento (e Hobsbawm ricorda di esser stato piuttosto storico dell’Ottocento).
Vi affiorano però anche alcuni limiti connessi alla sua impostazione di fondo, pur vissuta in modo aperto: di qui l’idea di un ruolo sostanzialmente progressivo, nonostante tutto, della rivoluzione d’ottobre, che condiziona i giudizi stessi sulla “guerra fredda” e sulle fasi successive. Ancora qualche anno dopo nella sua affascinante autobiografia, Anni interessanti, scriverà : “Il sogno della Rivoluzione d’ottobre è ancora dentro di me da qualche parte”. Questo era Eric Hobsbawm, uno dei più grandi intellettuali del Novecento.


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