L’omissione della pace

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Si tratta di una motivazione linguisticamente chiara, ma del tutto incoerente sul piano dei contenuti. Soprattutto perché visibilmente intrisa di omissioni, di semplificazioni storiche, di gravi inesattezze.
La commissione designata dallo Storting è infatti caduta in un equivoco di non poco conto. Essa ha confuso quelle che sono state le conquiste ottenute dal costituzionalismo democratico all’indomani della vittoria sul nazifascismo in Europa con le conquiste dell’Unione europea. L’avanzamento della pace, della tolleranza (che brutta parola!), della democrazia, dei diritti sono stati sì possibili in Europa, ma solo grazie alle costituzioni di cui le singole nazioni europee si sono dotate nel corso del Novecento: dalla Costituzione italiana del 1947 a quella spagnola del 1978. È in queste carte che noi troviamo solennemente affermato il ripudio della guerra, il primato della sovranità  popolare, il riconoscimento dei diritti.
Il premio per la pace, per i diritti , per la democrazia è al costituzionalismo sociale e al suo trentennio glorioso (cd. «Trente glorieuses») che avrebbe quindi dovuto essere attribuito e non all’Unione europea.
Di questi principi l’Unione europea ha sempre fatto tranquillamente a meno. D’altronde, l’individuo che l’ordinamento comunitario ha posto al centro della sua costruzione è sempre stato l’homo oeconomicus. Ragione per la quale si era ritenuto sufficiente assicurare solo quei diritti di libertà  che il neonato ordinamento reputava a tal fine fondamentali, in quanto immanenti alla costruzione del mercato comune. Ci si riferisce alla libertà  di circolazione seppure sinuosamente articolata nei Trattati sotto forma di libertà  di circolazione delle persone, dei capitali, dei beni e dei servizi.
E lo stesso si dica per la democrazia e per la pace. Certo si potrà , a questo punto, obiettare che la «pace» e la speranza di «vivere e lavorare in una comunità  pacifica» sono espressamente enunciate nella Dichiarazione Schuman (1950) e nel Preambolo del Trattato istitutivo (1957). Ma si tratta di richiami transeunti destinati anch’essi a rivestire un significato strumentale, una valenza servente rispetto a quello che è sempre stato l’obiettivo preminente del processo di integrazione: la costruzione dell’unione monetaria ed economica dell’Europa.
Di qui le innumerevoli contraddizioni, i travisamenti, i difetti di costruzione che hanno profondamente permeato la storia della Cee e oggi quella dell’Unione. D’altronde, quello che è lo stato comatoso del processo di integrazione è oggi sotto gli occhi di tutti: in Europa non vi è traccia di istituzioni democratiche in grado di decidere; la Carta dei diritti approvata a Nizza nel 2000 è stata recentemente espunta dai Trattati fondamentali dell’Unione (con il Trattato di Lisbona nel 2007); la pace, seppur ricorrentemente invocata dall’Ue, è stata via via addomesticata all’interno dei Trattati attraverso espedienti semantici e formule normative quanto mai controverse e discutibili. Se non, in alcuni casi, addirittura inquietanti. Provo a spiegarne le ragioni.
In base all’art. 3 Tue tra i preminenti obiettivi dell’Unione europea vi è anche quello di “promuovere la pace, la sicurezza e il progresso (non solo)in Europa”, ma anche nel mondo» (Preambolo Tue) e “con il resto del mondo” (art. 3.5. Tue).
Di primo acchito la novità , recentemente introdotta nel Trattato Ue, non può che essere registrata positivamente: l’Unione adottando tale soluzione «universalistica» parrebbe essersi definitivamente emancipata da quella che era stata in passato la sua vetusta e «asfittica» idea di pace. Un’interpretazione che vedeva nel valore della pace un principio sì da perseguire, ma solo fra le nazioni europee e al solo fine di favorire una più rapida ed efficiente costruzione del mercato unico. Oggi finalmente non si parla più di principio di «non belligeranza» tra le nazioni europee, ma di promozione della pace nel mondo.
Tale soluzione argomentativa necessita, però, sul piano concettuale, di una precisazione di non poco conto: promuovere la pace non significa ripudiare la guerra. Anzi la retorica militarista del vis pacem, para bellum, originalmente riproposta dalle recenti guerre di globalizzazione, ci ha in questi anni ossessivamente rammentato che la promozione della pace può oggi avvenire anche attraverso la guerra.
Le disposizioni contenute nel Trattato di Lisbona lo confermano ampiamente. A cominciare dall’art. 42 Tue che, assecondando lo spirito dei tempi, arriva ad ammettere che la promozione della pace possa oggi essere attivamente perseguita dall’Unione europea anche attraverso strumenti «militari» da impiegare in «missioni al suo esterno» (art. 42.1 Tue). Soprattutto quando si tratta di «contribuire alla lotta contro il terrorismo». E nell’enunciare ciò il Trattato di Lisbona non solo riafferma energicamente l’egemonia militare della Nato in Europa (art. 42.2 Tue), sancendone la piena compatibilità  «con la politica di sicurezza e di difesa comune» dell’Unione. Ma si spinge fino al punto di normativizzare tutto il corredo ideologico delle guerre di globalizzazione: la loro dimensione etica, il carattere preventivo, la vocazione «umanitaria» e di «soccorso». Nulla a che vedere quindi con l’art. 11 della Costituzione italiana. Né tanto meno con la dimensione kantiana del ripudio della guerra, di «tutte le guerre e per sempre».
La base normativa sulla quale provare a erigere in futuro il protagonismo militare dell’Unione europea nel mondo è stata così tracciata. Ma il Comitato di Oslo non se ne accorge e decide di attribuire all’Unione il premio Nobel per la pace.
Certo, in questo mondo tutto può accadere. E l’Unione potrebbe anche decidere di «ravvedersi», dimostrando inopinatamente a tutti noi di avere meritato quel premio. Ma per dimostrarlo ha una sola strada a disposizione: fare i conti con le ragioni del costituzionalismo, il linguaggio dei diritti, le pratiche democratiche. Rompere il fortino della cittadinanza europea estendendola a tutti i migranti. Promuovere la pace attraverso la pace. Anche perché è già  accaduto – fin troppe volte in passato – che l’Europa dopo aver (senza alcuna remora) glorificato la purezza della forza, celebrato le spedizioni di civiltà , esaltato le «guerre missionarie» abbia poi dovuto, precipitosamente, tornare sui suoi passi e fare drammaticamente i conti con se stessa e con le nefaste conseguenze che queste «imprese» avevano tragicamente prodotto in Europa e nel mondo.


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