Quando il virtuale divora la realtà 

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Il Novecento è stato il secolo del «cambio di paradigma». Ne è convinto James Gleick, storico statunitense della scienza e noto divulgatore scientifico. Di cambio di paradigma ne hanno scritto, in passato, Thomas Khun e Paul Feyerabend, filosofi della scienza accomunati dalla convinzione che lo sviluppo scientifico non è mai lineare e vede momenti in cui «verità » consolidate perdono il loro valore, e potere, conoscitivo per essere sostituite da altri risultati acquisiti nel lavoro di ricerca. Quando questo avviene c’è un salto di paradigma, proprio per segnalare la discontinuità  che interviene nella pratica scientifica. Nel caso di Gleick, invece, è opportuno parlare di cambio, esito di un lungo processo iniziato molto prima di quando le nuove «verità » si affermano alla luce di verifiche e conferme di «laboratorio». E se Khun e Feyerabend sottolinevano il carattere «traumatico», conflittuale di tale cambiamento, Gleick insiste sul carattere evolutivo del cambio di paradigma avvenuto nel Novecento. Lo chiama «paradigma informazionale e ha come oggetto proprio il ruolo centrale dell’informazione nella pratica scientifica e più in generale nella società  contemporanee. Come racconta in questo denso e tuttavia piacevole libro – Informazione, Feltrinelli, pp. 421, euro 35 – la biologia dei viventi, l’attività  cerebrale, i fenomeni fisici sono interpretate come un un flusso di informazioni che i ricercatori decodificano, classificano e infine elaborano. Il funzionamento e la riproduzione del corpo umano, l’attività  del cervello, l’intelligenza possono quindi essere spiegati a partire della loro riduzione a fonti e destinatari dell’informazione che producono, in una relazione sistemica scandita da continui feed-back. L’esempio più noto di questa centralità  dell’informazione è il Dna. Per spiegarne il funzionamento non conta tanto sapere come funzionano i geni, il Rna e gli altri elementi che lo compongono, bensì è importante decodificare le informazioni genetiche che produce. È un cambiamento radicale rispetto a come ha funzionato la scienza, che ha provato a spiegare la realtà  a partire dallo svelamento delle leggi che la governano.
Fragilità  della metateoria
L’idea che ci sia stato un «cambio di paradigma» è contestata da più parti. Gleick annota le critiche, ma preferisce sottolineare il fatto che il paradigma informazionale non riguarda solo la pratica scientifica, ma anche il funzionamento dell’economia, della politica, della società . Il nuovo paradigma è quindi da considerare quindi una metateoria che tutto spiega. È questa ambizione che rende il libro affascinante, ma non del tutto convincente.
Forte è nelle pagine che scandiscono l’esposizione della tesi di Gleick l’eco della teoria dei sistemi. Allo stesso tempo, capitolo dopo capitolo, emerge il fatto che con il paradigma informazionale viene stabilito il primato dell’immateriale – l’informazione, appunto – sul materiale. O se si preferisce del virtuale sul reale. Da questo punto di vista, il libro è da collocare in quel filone di ricerca teorica che prova a sviluppare una teoria forte che rappresenti la realtà  come un flusso di informazioni, relegando le contraddizioni, i conflitti, i rapporti di potere esistenti a manifestazioni degli errori, dei rumori di fondo che intercorrono nella trasmissione tra emittenti e riceventi.
Il processo che ha portato al «cambio di paradgima» è iniziato molto tempo fa e ha avuto un andamento carsico fino alla sua affermazione nella seconda metà  del Novecento. Per descriverlo, l’autore ha organizzato il libro secondo una struttura binaria, nella quale c’è posto per il racconto dello sviluppo dell’algebra di Boole, del ruolo innovatore di Charles Babbage, della straordinaria creatività  intellettuale di Lady Ada Lovelace – alla quale sono dedicate pagine che privilegiano il ritratto di una donna intelligente, ma infelice, malinconica e tendente alla depressione. Ci sono inoltre capitoli che parlano di come è stato possibile scomporre le attività  cognitive in una serie di operazioni semplici attraverso diagrammi di flusso – gli algoritmi – attingendo alla cultura islamica del XI secolo, anche se la parte del leone è dedicata a Alain Touring, Norbert Wiener e agli scopritori della struttura a doppia elica del Dna James Watson e Francis Crick. Allo stesso tempo, Gleick restituisce anche la riflessione filosofica che accompagno alcuni lavori scientifici.
Il matematico del Mit
La struttura binaria del libro ha necessità  di una ben gestita «economia dell’attenzione» da parte del lettore, perché costringe continuamente a fare i conti con una successione di fatti, incontri internazionali, ricerche di laboratorio e, allo stesso tempo, con materiali teoretici su come «l’informazione» stesse mettendo in discussione molte delle certezze con cui filosofi, sociologi ed economisti avevano letto il vivere in società . La chiave di volta del libro sta però nelle prime pagine, dedicate a un incontro che nei libri di storia della scienza e delle tecnologia viene quasi sempre segnalato come una nota a margine, visto che riguarda un appuntamento di routine organizzato dai «Bell Telephone Laboratories».
Era l’anno del signore 1948 e la società  di telecomunicazioni Att chiamò a discutere tecnici, ricercatori, docenti alcuni progetti avviati quando ancora la guerra era in corso, ma che avevano dati risultati promettenti. I laboratori avevano messo a punto un piccolo «dispositivo» che poteva cambiare radicalmente il modo di progettare e costruire macchine elettriche. Non aveva un nome, anche se un tecnico della Att ne aveva pensato uno – transistor -, anche se la Att era consapevole che molto ancora doveva essere fatto per produrlo su grande scala e a costi non proibitivi. Tra i relatori dell’incontro c’era un matematico veterano dei Bell Laboratories. Un tipo schivo, allampanato, perennemente distratto, con un volto dove il sorriso non aveva mai fatto la sua comparsa. Si chiamava Claude Shannon e aveva pubblicato sul «The Bell Systema Technical Journal» un breve saggio dal titolo esplicativo: «A Matematical Thoery of Communication».
Per il matematico laureato al Mit la comunicazione umana è una catena di parole – ogni singola parola veniva chimata bit – organizzata secondo le regole del linguaggio parlato. La sua proposta non si poneva il problema del significato, bensì di come «spacchettarla», trovando il modo di correggere gli errori che potevano presentarsi se la comunicazione avveniva a distanza. Gleick ritine che quell’incontro ha un posto fondamentale nel «cambio di paradigma», perché in quella sede Shannon stava ponendo le basi della «teoria dell’informazione», senza la quale i successivi sviluppi dell’elettronica, dell’informatica non sarebbe stata possibile.
Un problema di entropia
È noto che tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento ci sono stati molti fisici, matematici, ingegneri che stavano lavorando alla costruzione di macchine per l’esecuzione veloce di calcoli che un umano riuscirebbe a fare in molto tempo. I pochi scritti di Alain Touring avevano avuto una diffusione virale nei laboratori di ricerca e che erano diventati una sorta di Bibbia per chi voleva costruire macchine «intelligenti». Assegnare quindi a quell’incontro un posto così rilevante nella storia della scienza è un azzardo che va motivato, spiegato. Per fare ciò Gleick «cede» la parola a Shannon, meglio riporta, quasi in un commento interlineare, brani del saggio che illustrano il progetto e la tesi del matematico del Michigan, da dove emerge il fatto che macchine elettromeccaniche per comunicare già  esistevano, ma non erano ancora riuscite a eliminare il rumore di fondo e a garantire che l’informazione trasmessa fosse quella giusta. Il telegrafo aveva l’alfabeto Morse per aggirare gli ostacoli, ma lo comprendevano solo un ristretto numero di «specialisti». Il telefono aveva fatto passi avanti, ma erano frequenti errori, interrruzioni della comunicazione a causa di una tecnologia ancora «primitiva». Shannon proponeva una cornice teorica per affrontare tutti i problemi e delegava alla ricerca «sul campo» il compito di risolverli. Abbozzava anche la divenuta famosa tesi sull’entropia, cioè che l’aumento esponenziale della comunicazione non produce caos, ma che tende comunque a trovare un punto di equilibrio. Il matematico statunitense si spingeva più in là , affermando che la formalizzazione matematica della comunicazione poteva essere uno strumento utile da usare anche nella costruzione di macchine intelligenti, perché l’intelligenza umana ha un potente «medium» per manifestarsi, il linguaggio, che poteva anch’esso formalizzato matematicamente. Shannon non si è mai posto il problema di cosa sia l’intelligenza, né ha mai indagato la produzione di atti linguistici. Ha solo sostenuto che l’informazione poteva essere gestita attraverso formule matematiche. Cosa che è poi accaduta.
La catena spezzata
Il libro di Gleick fornisce un quadro esauriente degli effetti che le tesi di Shannon hanno avuto nello sviluppo dell’informatica, della biologia, nell’economia – Herbert A. Simon ha ricevuto il Nobel nel 1978 proprio per i suoi studi sul funzionamento dell’economia come un dispositivo informazionale -, nella sociologia, nelle cosiddette scienze cognitive. Lo fa in una prospettiva apologetica. Ma al di là  del fatto che ci si trovi di fronte a un cambio o a un salto di paradigma, vanno ricordate le critiche al paradigma informazionale. Lo storico della scienza Bruno Latour, ad esempio, considera la teoria dell’informazione una griglia analitica che funziona solo come un elemento descrittivo. Manuel Castells propone sì di qualificare proprio come informazionale il capitalismo contemporaneo, visto che la produzione di merci non fa altro che alimentare i flussi di informazione, ma sottolienea come il flusso di informazione serve a coordinare la produzione materiale. E che tra materiale e informazionale c’è un rapporto di interdipendenza, sono cioè due aspetti di una stessa medaglia, perché l’uno aspetto non esiste senza l’altro.
Non è certo obiettivo di James Gleick l’analisi del capitalismo. Semmai si concentra su come il paradigma informazionale abbia travalicato il campo scientifico per diventare, appunto, una metateoria della realtà . Il suo saggio è però sviluppato a partire da una visione riduzionista del rapporto tra informazione e ambiente. In altri termini, il paradigma informazionale attesta il dominio del virtuale non perché sussume il materiale, ma perché lo riduce a semplice informazione. Un riduzionismo che cancella il fatto che l’informazione è anch’essa il risultato di un modo di produzione e che ogni applicazione automatica della teoria dell’informazione alla realtà  sociale produce un occultamento proprio di quel modo di produzione. Claude Shannon scriveva che non era interessato ai contenuti dell’informazione. In fondo voleva solo offrire una cornice teorica affinché alcuni problema nella trasmissione dell’informazione potesserro essere affrontati e risolti. Il paradimga informazionale di Gleick, invece, vuole semplicemente occultare i rapporti sociali che sottendono il flusso di informazione.


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