Siria, si combatte nella grande moschea Umayyad ad Aleppo

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Avanzata e ritirata. Per tre volte la moschea è stata conquistata dai ribelli e poi ripresa dall’esercito. Tre giorni fa un’altra avanzata dei ribelli ha costretto l’esercito all’ennesima ritirata. Una operazione veloce, come dicono da queste parti, che ha colto i fedeli di Assad di sorpresa non lasciando altra scelta che la ritirata. Perché sia così strategica me lo spiega Abu Fairà : “per noi, controllare l’area attorno alla grande moschea significa avere la strada aperta per attaccare la Cittadella, la zona dove sono appostati molti cecchini e da dove arrivano la maggior parte dei colpi di mortaio”. Ma allo stesso tempo, per l’esercito, controllare la moschea significa una via aperta per il controllo dell’area di Al Madina markek, che fino ad oggi è sempre stata territorio dell’Esercito Libero Siriano.

Per entrare dentro si passa dai muri che non hanno retto ai colpi di mortaio dell’esercito. E una volta entrati si cammina sulle macerie di quello che resta. Il minareto, completamente annerito dal fuoco, è dall’altra parte del cortile. Le grandi arcate sopra le nostre teste sono l’unico riparo dalla pioggia di artiglieria che l’esercito spara da più di 10 ore, quando i ribelli lo hanno costretto a indietreggiare. Gli antichi lampadari che una volta addobbavano i grandi soffitti sono accasciati a terra, frantumati. Ci sono anche alcuni cadaveri con il sangue non ancora seccato. I ribelli mi mostrano il documento di appartenenza all’esercito di uno di loro. Ha 23 anni e viene da un villaggio a Sud-Est della Siria.

Mentre camminiamo tra le vecchie stanze dell’edificio andate in frantumi i colpi di mortaio si fanno sempre più insistenti. La radio del comandante Abu Fairà  gracchia diverse volte. I ragazzi che stanno dentro la moschea cominciano ad agitarsi, ma il comandante cerca di calmarli. La notizia è che l’esercito sta avanzando e si trova a meno di 100 metri nella parte Sud. Mentre torniamo indietro un colpo di mortaio atterra sul passaggio che avrebbe dovuto portarci fuori. Qualche attimo di smarrimento, il tempo che la polvere alzata dall’esplosione si abbassi e inizia per gli uomini dell’Esercito Libero Siriano l’ennesima ritirata dalla moschea di Umayyad. In pochi minuti l’area diventa un inferno. La polvere dei muri che si sgretolano si mescola al fumo grigio delle esplosioni lasciandoti senza fiato. Si scappa passando da una casa all’altra, da un negozio all’altro, nel buio più totale nonostante sia solo mezzogiorno. L’unica luce che viene usata per aprire la strada è quella dei cellulari. Ad ogni incrocio un ribelle si ferma, spara per far passare gli altri e via di corsa. Dopo oltre un’ora, pieni di polvere, con cinque dei ribelli che si trovavano nella moschea siamo fuori dall’area dei combattimenti.

C’è il tempo per un thè, poi, dopo quasi due ore, anche gli ultimi combattenti tornano indietro. Hanno provato a resistere ma non c’è stato niente da fare. Alcuni si lamentano: “Non si può – dice Mustafa – resistere all’avanzata dell’esercito quando sparano con i mortai. I kalashnikov ed i pochi Rpg che abbiamo non sono niente rispetto a quello che l’esercito usa contro di noi”. Mentre la discussione si accende sui motivi dell’ennesima ritirata fuori dalla casa utilizzata come base cala il sole. Ogni tanto il fischio dei colpi di mortaio fa alzare le teste al cielo: “quando lo senti – dice Ibrahim – significa che è già  passato sopra la tua testa”. “No problem”, dice qualcun’altro ridendo. Al mattino, quando uno alla volta i ribelli si svegliano e si preparano per tornare ai check-point in prima linea vicino alla moschea, alcuni “shebab”, come si chiamano tra loro, tornano indietro per il cambio: “l’esercito non è dentro la moschea – racconta uno di loro – ma ci sono almeno due cecchini che sparano a tutto quello che si muove attorno”.

Comincia un altro giorno di scontri. E qualche altro pezzo della città  vecchia, patrimonio dell’UNESCO, andrà  a sbriciolarsi.

Andrea Bernardi, dalla Siria


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