Xenofobia, arricchirsi con l’ansia di sicurezza

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PARIGI. G4S è tra le compagnie private al mondo che hanno il maggior numero di dipendenti: 650mila persone lavorano per questa società  di diritto britannico, presente in 110 paesi del mondo. Negli ultimi mesi, il grande pubblico è venuto a conoscenza del nome della G4S, perché è a questa società  che il governo britannico ha affidato gran parte della gestione della «sicurezza» dei Giochi Olimpici di Londra la scorsa estate, a cui ha fornito 13.700 agenti. G4S, regolarmente quotata in Borsa, in Gran Bretagna gestisce quattro prigioni e quattro centri di detenzione per immigrati irregolari, tra cui quello vicino all’aeroporto di Gatwick, oltre a numerosi altri piccoli centri per soggiorni di breve durata del clandestini. E’ la prima società  nel campo della «sicurezza» in Gran Bretagna (dove ha concluso contratti con lo stato per 4,6 miliardi di sterline) e Irlanda. Negli Usa, dove ha inviato delle squadre a New Orleans dopo l’uragano Katrina nel 2005 per collaborare all’evacuazione delle vittime, gestisce il rimpatrio delle persone arrestate per aver passato illegalmente la frontiera con il Messico. La G4S è anche molto presente in Sudafrica. Nel 2010, dopo la morte per asfissia dell’angolano Jimmy Mubenga, soffocato sul sedile del volo BA77 dalle guardie private che lo «rimpatriavano», la G4S ha perso questo tipo di contratto con la Gran Bretagna, dove, da quando aveva il monopolio della gestione delle espulsioni, dal 2005, aveva guadagnato 110 milioni di sterline (125 milioni di euro). Il contratto è stato poi concluso con un’altra società  privata, la Reliance Securuty Task.
Questi dati ci dicono che le leggi che limitano l’immigrazione sono un vero e proprio business per un gruppetto di multinazionali. G4S, Droneexport, Gragon Gloves, Fox Fury, King Cobra, Holsters SNC, Recon Robotix, sono i nomi di alcune di queste società  private che operano nel campo della «sicurezza» pubblica. Ci sono anche società  molto più note, Finmeccanica, Eads, Thales, Indra, Siemens, Eriksson, Sagem o Boeing (che ha un mega-contratto per gestire la rete di sorveglianza elettronica alle frontiere terrestri degli Usa). La spagnola Indra ha messo in atto il sistema di controllo elettronico delle frontiere marittime della Spagna, incassando 260 milioni di euro. Queste società  si spartiscono un mercato in netta crescita dopo l’11 settembre: nel 2009, era stimato globalmente a 450 miliardi di euro, in progressione del 10-12% l’anno. L’Europa ha in programma una spesa pari a 4 euro per abitante (con 450 milioni di abitanti, 1,3 miliardi di euro). In Europa ci sono tra 300 e 400 luoghi di detenzione amministrativa per migranti illegali e la direttiva «rimpatri» del 2008 permette di mantenere imprigionate le persone fino a 18 mesi.
La storia e le implicazioni ideologiche di questa deriva sono raccontate da Claire Rodier in Xénophobie Business (La Découverte, 194 pag., 16). L’autrice è una giurista del Gisti (Gruppo di informazione e di sostegno agli immigrati), cofondatrice della rete euro-africana Migreurop.
18mila chilometri di “muri”
Il mondo contemporaneo vive un paradosso: da un lato, la mobilità  internazionale aumenta e si sviluppano le zone dove vengono abolite le frontiere (Ue, Alena, Mercosur) e dall’altro si intensificano i controlli migratori e crescono «muri» (tra Usa e Messico, le pattuglie marine nel Mediterraneo, tra Israele e Cisgiordania, prossimamente nel Neghev, tra Grecia e Turchia lungo il fiume Evros, filo spinato per proteggere Ceuta e Melilla enclaves spagnole in Marocco, scanner e biometria agli aeroporti ecc.). Nel mondo ci sono oggi 18mila chilometri di «muri» (anche solo di filo spinato) per bloccare gli immigrati sgraditi. E non solo in occidente: nel 2003, il Botswana ha costruito un reticolato elettrificato di più di 800 km alla frontiera con lo Zimbabwe. La più lunga «chiusura» separa l’India dal Bangladesh, lunga 2500 km. Dei «muri» nascono anche all’interno dei paesi: in Romania, a Baia Mare, ne è stato costruito uno in cemento armato per isolare una comunità  Rom.
In Europa, negli anni ’80 viene introdotta la libera circolazione dei cittadini, ma poi viene stipulato il trattato intergovernativo Schengen, che mette in opera un filtraggio delle persone. Queste politiche di controllo hanno dei costi: prima di tutto umani (più di 16mila morti tra il ’93 e il 2012 tra chi ha tentato di raggiungere clandestinamente l’Europa, secondo l’ong United), problema che però non sembra interessare quasi nessuno. Poi ci sono i costi finanziari, che invece attirano capitali e investitori. La xenofobia, in effetti, per le società  di «sicurezza» è un ottimo affare, in netta espansione in questo periodo di crisi. La nuova filosofia della sicurezza affidata ai privati è stata chiarita nel 2009 da Franco Frattini, ex commissario alla Giustizia e Affari interni: «La sicurezza non è un monopolio delle amministrazioni, ma un bene comune, la cui responsabilità  e applicazione deve essere condivisa tra pubblico e privato». Frontex, il dispositivo della Ue per controllare le frontiere esterne, ha moltiplicato per 15 il budget che nel 2005 era di 6,3 milioni di euro. La Spagna ha ricevuto nel 2007 356 milioni di euro dalla Ue per «securizzare» le frontiere marittime, Eads ha fornito alla Romania un sistema integrato per 670 milioni di dollari per mettere in sicurezza le frontiere del paese. La Bulgaria è sulla stessa strada. L’Ue con il progetto Oparus ha finanziato con 1,19 milioni di euro società  private (Sagem, BAE System, Thales, Eads, Dassault ecc.) per sviluppare controlli attraverso i droni.
Ma quale utilità  hanno questi controlli? si chiede Claire Rodier, visto che servono «solo marginalmente, malgrado quello che pretendono coloro che se ne fanno i promotori – responsabili politici, poliziotti e esperti diversi – a controllare gli spostamenti delle persone che migrano dissuadendo o orientando i flussi in funzione di un’organizzazione pianificata». Per Claire Rodier un ruolo preponderante è svolto dall’«economia securitaria», cioè «quella che trae profitto dai dispositivi sempre più sofisticati che servono a chiudere le frontiere. Tecnologie di punta nel campo della sorveglianza a distanza, società  private specializzate nella gestione dei centri di detenzione di migranti o nell’accompagnamento per le espulsioni, riciclaggio in campo civile del know how militare oggi sottoutilizzato».
L’esternalizzazione dei controlli
L’irruzione dell’economia privata nella sicurezza pubblica aumenta le dimensioni del fenomeno, permettendo ai politici – impotenti di fronte alla crisi – di «manipolare l’incertezza» sfruttando le paure. C’è infine una dimensione geopolitica dei controlli: l’Europa, per esempio, ha tendenza a «esternalizzare» la gestione dei controlli, alla Libia di Gheddafi prima, oggi al nuovo regime, al Senegal, alla Mauritania, al Marocco ecc., con il doppio vantaggio di far fare il «lavoro sporco» ad altri (dove le leggi di protezione degli individui sono per di più molto meno vincolanti) e di ristabilire un rapporto di dipendenza con paesi sottoposti al ricatto economico (o fai questo o non ci saranno aiuti allo sviluppo e contratti). Dal ’99 l’Ue ha introdotto la lotta contro l’immigrazione illegale in tutti i contratti di cooperazione: la cosiddetta «politica di vicinanza» è dotata di un finanziamento di 12 miliardi di euro per il periodo 2007-2013, e concerne i paesi alle frontiere est e sud dell’Europa. Il sistema fa guadagnare tutti e a rimetterci sono solo i migranti. L’esempio della Libia è illuminante: non solo ai tempi di Gheddafi l’Italia aveva pagato 5 miliardi per subappaltare a Tripoli il controllo dell’immigrazione irregolare, ma la Ue ha concluso un contratto di 300 milioni con la Libia per «securizzare» la frontiera meridionale del paese. Questi 300 milioni tornano poi nelle tasche dei produttori europei di sistemi di controllo elettronico (la francese Thales e la spagnola Indra, in questo caso). Il campo di Nouadhibou in Mauritania, finanziato dal fondo di cooperazione europea, è stato soprannominato Guantanamito per le condizioni in cui vivono i migranti in transito, bloccati nel tentativo di raggiungere l’Europa. Infine, privatizzare i controlli dei migranti, sostiene Claire Rodier, «contribuisce alla banalizzazione dell’espulsione». E i governi possono lavarsi le mani sulle accuse di abusi (nel 2010, la G4S è stata oggetto di 48 denunce, che non hanno neppure sfiorato il governo britannico che era il mandante). Del resto il ricorso alla forza per portare a termine le espulsioni è raccomandato anche da fattori economici: ritardare un aereo costa, quindi gli agenti devono tenere buoni gli espulsi, con tutti i metodi (i casi di morti per soffocamento sono numerosi, da Jimmy Mubenga a Semira Adamu).
Gli stati hanno sempre meno soldi e affidano missioni di difesa e sicurezza ai privati. La situazione è emblematica negli Usa e nei paesi anglosassoni, ma il fenomeno sta arrivando anche in Europa continentale. E’ la «sola soluzione», sostiene uno studio della G4S, per fare economia nella spesa pubblica. Le compagnie private hanno le mani più libere dei funzionari pubblici. Nel 2011, per esempio, la società  Serco, che gestisce il centro di detenzione per migranti di Yarl’s Wood, è stata accusata di «schiavitù moderna»: faceva lavorare i migranti per 50 centesimi l’ora. La G4S, altro esempio di piccoli guadagni, obbliga i migranti nelle sue prigioni a utilizzare un telefonino fornito dalla stessa compagnia, più caro di quelli in commercio.
Le lobbies della sicurezza
Le società  private formano anche delle potenti lobbies che influenzano le leggi, che naturalmente fanno comodo quando sono sempre più repressive. Un caso emblematico è quello dell’Arizona, con la legge SB 1070 dell’aprile 2010. Le misure più controverse sono state sospese dalla Corte suprema, ma l’aumento della «criminalizzazione» dei comportamenti è andato a vantaggio delle società  private che gestiscono i migranti irregolari arrestati. Esiste, difatti, una vera e propria «industria del carcere» negli Usa, dove la popolazione carceraria è aumentata dell’85% durante il primo decennio degli anni 2000, dalle forniture dei pasti (tra le principali c’è Sodexho Mariott) fino alla gestione diretta delle prigioni private, dove le società  CCA (Tennessee) e Geo (Florida) sono dei giganti, quotati in Borsa (CCA è uno dei primi cinque titoli della Borsa di New York). Geo gestisce Guantanamo e il valore dell’azione della società  è moltiplicato per 5 dal 2002 al 2007. Geo e CCA nel solo 2005 hanno speso 6 milioni di dollari in operazioni di lobbying presso i politici, perché venissero approvate leggi più severe sulla repressione, intervenendo nel gioco elettorale. Anche l’ex presidente Dick Cheney ha investito in Vanguard, uno dei grossi azionisti di Geo, su consiglio degli esperti di Wall Street, che propongono «buoni affari» nella sicurezza. E il gioco continua: più repressione, sempre maggiori migranti, ancora più repressione, con una corsa che non deve però bloccare i flussi, perché c’è necessità  di manodopera a buon mercato.
In Italia e in Francia la gestione dei centri per detenzione di immigrati irregolari è ancora nelle mani della pubblica amministrazione, ma anche qui ci sono delle società  che guadagnano sulla pelle di queste persone (fornitura pasti, pulizie, associazioni varie ecc.). In Italia, la Corte dei Conti ha rilevato che il costo di un migrante in un centro di detenzione poteva arrivare fino a 100 euro al giorno. Nel 2011 l’appalto per la gestione di due centri italiani è stato vinto dalla francese Gepsa, che fattura 34 euro al giorno per migrante e ha ottenuto un contratto di 14,6 milioni di euro per 3 anni. In Grecia, dove presto ci saranno una trentina di campi per migranti, il governo vanta i vantaggi per l’occupazione (mille posti per campo).
Le porte di entrata dei migranti si spostano, a misura che vengono imposti controlli più severi nelle vie tradizionali, in una continua rincorsa, che non raggiunge mai lo scopo dichiarato – impedire l’immigrazione – ma permette di costruire imperi economici. Il legame che viene fatto tra immigrazione e terrorismo tende a tappare la bocca a tutti gli oppositori.


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