Bersani: «Pronto alla sfida». E sente Casini

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ROMA — Pier Luigi Bersani è tranquillo. O, almeno, così appare. Ieri ha parlato con Giorgio Napolitano e si è convinto che il pericolo Monti sia assai meno esplosivo di quello che appare.
Ha compulsato i sondaggi che danno a un’eventuale formazione intitolata al premier una percentuale assai ballerina che va dall’11 al 21 per cento. Il che significa, in parole povere, che una forza siffatta potrebbe addirittura non arrivare a due cifre, visto che le insindacabili e implacabili forchette dei sondaggi rivelano che c’è sempre un più 3 o un meno 3 di fronte alle percentuali guadagnate dalle rilevazioni.
Bersani ha conversato anche con il presidente del Consiglio, che gli ha ribadito la sua cautela e la voglia di «non rompere con il Pd». Poi il leader ha lanciato i suoi messaggi: «Sono pronto al confronto televisivo con Monti». E ora aspetta quello che verrà . Conscio del fatto che quella che sembrava una marcia trionfale si sta profilando più complicata di quanto sembrasse.
«Io sono pronto a sfidare Monti», avverte il segretario del Partito democratico. Che aggiunge: «Sono anche disponibile a dire che cosa della sua agenda può andare bene e che cosa no». Ma c’è un’altra novità  che rende il percorso di Bersani meno disagevole. Pier Ferdinando Casini lo ha chiamato e gli ha detto: «Non so quello che accadrà  e non ne sono convinto, un’unica cosa è certa: se cercano di fare dell’Udc la bad company, il listone dove finiscono tutti quelli che hanno dei problemi, si sbagliano di grosso. Io voglio pari dignità ».
Sono voci, consigli, timori, tremori e suggerimenti che lasciano al segretario del Partito democratico la convinzione che tutto sia più complicato di quello che viene raccontato, che l’esito non sia scontato, come non lo è il tentativo di Monti di scendere in campo.
«Non ci servono spot elettorali, élite pronte a prendere le redini, storie che non stanno in piedi: dobbiamo tutti scontrarci con la dura realtà . E per quel che riguarda noi del Pd dobbiamo dimostrare che siamo in grado di governare, che lo faremo bene, senza bisogno di badanti», è la parola di Bersani. In questa guerra di nervi tra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, nonostante le apparenze, il secondo parte avvantaggiato. Non ha promesso futuri possibili e migliori. Non è andato appresso al ministro Riccardi che segnava la differenza tra il rito montiano e quello bersaniano. Anzi. E’ rimasto lì ad attendere quello che sarebbe successo. Sicuro del fatto che il presidente del Consiglio non sarebbe andato oltre la linea tracciata: «I voti li abbiamo noi».
Non a caso il premier, prima di sciogliere la Camera, è tornato a chiedere al Pd una spalla e un appoggio. Che non gli mancheranno. A patto che la partita sia giocata a carte scoperte. Perché Bersani non vuole «mangiarsi la coda», a furia di «dipingere sempre lo stesso quadro, come se nulla fosse cambiato o nulla cambiasse». Alla fine dell’ennesima giornata di telefonate, appuntamenti dati e mancati, Bersani si rende conto che il nemico non sta lì a Palazzo Chigi, ma è in casa. Il segretario del Partito democratico per togliere lo scettro e la ragione sociale al governo dei tecnici, si è mostrato pronto sin dall’inizio a escogitare il modo per dare vita a una nuova classe dirigente. E quel modo chiamasi voto delle primarie. Ma anche su questo terreno il Pd, per continuare a conquistare i voti di cui ha bisogno la coalizione del centrosinistra che verrà , è pronto al dialogo. O quanto meno a dare l’impressione di volerlo. E così Bersani comincia a stilare le sue liste elettorali, ben sapendo che anche una vittoria di misura o, addirittura, un pareggio non lo bloccheranno per sempre, ma, comunque, gli faranno perdere voti, consensi e, soprattutto endorsement indispensabili. Anche perché la china lungo la quale potrebbe incamminarsi il Partito democratico è ancora più insidiosa di quello che sembra.
Tra breve verranno a mancare dal pacchetto di mischia del Pd sia D’Alema che Veltroni. E poi ci sarà  solo Renzi, che ragiona così: «Mi hanno chiesto di siglare un compromesso, bene, gli ho risposto io, datemi il 40 per cento delle candidature, “no”, hanno replicato loro. E alla fine l’offerta che mi hanno fatto è questa: tieniti i tuoi parlamentari uscenti. Io mi sono incavolato, e l’ho spiegato in tutte le salse: non voglio nel listino i parlamentari, come non voglio chiunque abbia consuetudine con la politica: tutti questi corrano alle primarie, i giovani sotto i 40 abbiano invece delle chance». E’ un monito che mette in mora tutto il gruppo dirigente del Pd, da Rosy Bindi che tenta la fortuna delle primarie nella sicura Campania ad Anna Finocchiaro che fa altrettanto in Emilia. E’ un monito, sì, ma anche un’opportunità  per dire che non c’è bisogno di andare tanto lontano dai partiti per trovare quella che Veltroni ancora ieri ha chiamato la «bella politica».


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