Così la Cina vuole «schedare» mezzo miliardo di internauti

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Se Xi Jinping durante il suo primo mese e mezzo di potere ha puntato — con successo — sull’immagine di leader capace di parlare la lingua di tutti, le nuove norme che la Cina ha varato per regolamentare Internet rischiano di smorzare i moti di simpatia. Il comitato permanente del Parlamento (Assemblea del Popolo) ha infatti approvato regole per inasprire i controlli sugli utenti, con 145 sì, un no e 5 astenuti. Sarà  obbligatorio registrarsi con il proprio nome per accedere ai vari servizi online (anche se si può poi comparire con un nickname): questo vale soprattutto per i microblog, modellati su Twitter (censurato). Con mossa delatoria, i provider dovranno segnalare i contributi contrari alla legge e cancellarli. Minuziosa la preparazione. Mesi di rallentamenti sul web, attacchi per rendere inefficaci le vpn (i software che aggirano i filtri della Rete cinese), articoli ed editoriali che giustificano un maggior controllo in nome della privacy, della sicurezza, della lotta ai «pettegolezzi» e dunque, in ultima istanza, dell’ordine sociale: e non è un caso che un’altra, distinta legge ora imponga ai figli di genitori anziani di «visitarli spesso». Praticamente, Confucio obbligatorio.
Le misure approvate dal vertice del potere legislativo riguardano virtualmente il mezzo miliardo di netizen cinesi e formalizzano indicazioni sparse che già  esistevano, specie a livello amministrativo. Ad esempio, quest’anno al colosso Sina era stato ordinato di pretendere che gli utenti del suo weibo (il servizio simil-Twiter) si registrassero con il vero nome, ma la messa in pratica si era di fatto impantanata. Esiste già  anche la cancellazione dei testi «inappropriati». Ma come per l’acquisizione delle schede telefoniche sarebbe d’obbligo il documento di identità , l’applicazione delle disposizioni relative alla Rete è spesso disattesa o aggirata.
L’annuncio di ieri ha però un peso politico. Segnala la volontà  della nuova leadership comunista di presidiare attivamente gli spazi lasciati liberi alla frequentazione dell’opinione pubblica. Il neosegretario Xi Jinping ha dichiarato la necessità  di combattere la corruzione nel Partito. E poiché proprio i microblog si sono rivelati strumenti formidabili per denunciare abusi e comportamenti sconsiderati di funzionari e dirigenti, la stretta di adesso conta di riportare tutto sotto la supervisione dei vertici. Denunciare sì, dunque: ma chi, come, dove e quando, si decida a Pechino.
Gli utenti non ne saranno felici. Neppure le aziende — sia quelle straniere, comunque danneggiate dagli attacchi alle vpn, sia quelle cinesi — accoglieranno bene obblighi che frenano un’area vasta e vitalissima della Rete, dai social network all’e-commerce fino alla fiorentissima industria dei giochi online. «Aspettatevi un’intensa attività  di lobbying da parte delle grandi società  cinesi del web per annacquare il tutto», avverte Bill Bishop, consulente aziendale e rispettato analista a Pechino: «Comunque già  adesso l’essere anonimi online in Cina non esiste, soprattutto se per fare microblogging si usano apparecchi mobili. Le autorità  ti possono comunque beccare». La partita ora si sposta su modalità  e tempi dell’attuazione delle nuove prescrizioni. Da qui alla formazione del nuovo governo e alla nomina di Xi a capo dello Stato (in marzo, a Parlamento riunito) si vedrà  il grado di fermezza nell’applicare la legge. Pechino ha imparato a non trascurare le reazioni dell’opinione pubblica. E anche se un Internet «in ordine» e ubbidiente val bene il malumore popolare, c’è sempre tempo per dosare la formula.


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