L’espropriazione viaggia in funivia

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La storia parte dai margini. Anche quella marginale della funivia, come mezzo di trasporto e di cittadinanza. Ammettiamolo, tra i simboli della modernità  la funivia non è certo il più eminente, ritagliandosi uno spazio laterale, quasi insignificante. Eppure, se il tempo moderno fosse davvero quel vettore lineare che non è, allora la funivia potrebbe quasi diventare il cronotopo di una certa idea di modernità  e pure del capitale. Perché, letteralmente, sorvola sul territorio, astrae dalle sue asperità , bonifica irregolarità , congiunge punti saltando mediazioni, rettifica, corregge. Marx ed Engels non potevano pensare a lei ma davvero, con la funivia, «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». Concepita in origine per le merci, è stata poi riconvertita a uso civile divergendo tra una versione elitaria, proiettata su paesaggi innevati e panorami mozzafiato, e una più recente, di massa e urbana, su cui si alterneranno diversi «carichi» che la funivia metterà  a suo modo in fila, ordinerà .
Per incontrare la prima cable-car occorre risalire al 1907, a San Sebastian: più precisamente sul monte Ulìa, meta panoramica della cittadina basca, imbattendosi in una sorta di Leonardo dell’ingegneria civile dalla cui beautiful mind è scaturita una saga meccanica ai limiti del teratologico, tra dirigibili semirigidi, calcolatori analogici e automi guidati da onde elettromagnetiche. L’altro Leonardo, creatore di siffatte memorabilia, si chiama Torres Quevedo e a lui si devono una serie di funicolari oltre ai primi impianti teleferici: quello di San Sebastian e poi la Niagara Falls Aerocar, inaugurata nel 1916 e tuttora in attività , ma anche Chamonix, Rio – dove torneremo. In questi termini, tuttavia, la vicenda assume una piega esclusiva: raggiungere vette inaccessibili, godersi paesaggi da cartolina, respirare aria pulita.
Aldilà  del turismo, di percorsi panoramici (Barcellona, Montreal) o gite fuori porta (Madrid, Koln), l’idea della funivia come mezzo di trasporto di massa è più recente e può partire da Chongqing, intorno al 1940, con il «ponte aereo» sullo Yangtsi, concepito però in funzione difensiva anti-giaponese prima che per la cittadinanza; oppure a New York, nel 1976, con la Roosevelt Island Tramway, che trasporta da Manhattan i commuters middle class residenti nell’isoletta di East River e lì si ferma, senza estendersi al limitrofo e allora non gentrificato borough di Queens, tantomeno a Brooklyn: all’orizzontalità  del paesaggio corrisponde quindi una verticalità  di classe e razza che la tramway non solo non abbatte, ma accentua. Per questo, se si vuole cercare un inizio della storia della funivia come mezzo che non guada solo un fiume ma estende il diritto alla mobilità , e quindi la cittadinanza, si deve guardare altrove, e cioè in Colombia. Non però alla cable di Monserrate a Bogotà¡, ma al Metrocable di Medellà­n, realizzato nel 2003 da Sergio Fajardo, all’epoca sindaco progressista di una città  nota soprattutto per il cartello della droga.
Il Metrocable collega con due linee il centro della città  alle sovrastanti comunas, rispondendo a un problema morfologico e politico. Se l’«informalità » è il tratto dominante delle città  sudamericane (che ogni paese traduce su varianti idiosincratiche: comuna, favela, villa miseria, poblà , colonia, ecc.), a Medellà­n, come del resto in altre metropoli latine, la presenza di questi nuclei coincide con una particolare verticalità , restituendo l’immagine sicuritaria di una serie di centri «sotto assedio». È su questo piano inclinato che interviene la funivia, per dare accesso alle comunas sopraelevate, abolire dislivelli fisici e sociali e ridistribuire quelle risorse selettive che sono mobilità  e velocità . Tra pratiche spaziali, rappresentazioni dello spazio e spazi di rappresentazione, l’esito è comunque potente: oltre a disseminare le comunas di strutture di rigenerazione (che si rivelano però marziani calati dall’alto, in prossimità  delle varie stazioni e in assoluta discontinuità  con il resto del paesaggio), riconfigura complessivamente le traiettorie regalando tempo e, dono ambiguo, accelerandolo. Se la mobilità  è un diritto, la velocità  gli conferisce qualità : questo il movente della politica inclusiva di Medellà­n.
Etnografia del potere
Ma di quale inclusione si tratta? Oggi gli urban planner straparlano di approcci olistici, come fossero terapeuti, eppure è difficile imbattersi in politiche inclusive tout court. Così si scopre che anche lo spazio prodotto dal metrocable è irregolare e striato: se estende la mobilità  lo fa in termini selettivi, rivalutando aree adiacenti alle stazioni e segmentando al proprio interno territori costruiti su esperienze comuni. Non è un caso poi che per valutarne l’impatto un gruppo di etnografi si rifaccia alle indicazioni della World Bank e promuova un sistema che «implementa l’accessibilità  e pure un codice di comportamento». Strana ingiunzione dall’alto di un potere misto, pastorale e governamentale: perché «livellare» significa anche imporre temporalità  standard a ciò che si indentifica come irregolare o disordinato, e ridistribuire selettivamente l’accesso alla mobilità  in cambio di buona condotta. Il viaggio comunque non finisce a Medellà­n. Anzi, sembra che sull’esempio colombiano si sia scatenata una corsa latina alla funivia. La seconda tappa è Caracas dove, nel 2008, è stata realizzata la teleferica di San Agustà­n, che collega l’omonimo barrio all’adiacente centro urbano. Qui però la situazione è diversa, dato che la funivia si limita a girare su un solo barrio, peraltro già  ipercollegato con il centro, senza creare reti «rigenerative». Il fatto è che anche questa funivia, pur rispondendo a una domanda reale, finisce per accentuare la geografia selettiva del barrio. L’esito è un effetto splintering (frantumazione) dentro San Agustà­n, ribattezzato creativamente pavellonizacià³n, che rivaluta certe aree aumentando in altre la sensazione di essere intrappolati nel proprio pavellà³n.
Normalizzare l’eccezione
Ultima tappa: Rio de Janeiro, 14 luglio 2011. Dilma Rousseff inaugura i 4 km di funivia che sorvolano le 13 favelas dell’ingente Complexo do Alemà£o, zona nord, dotando le principali di una stazione. Va detto che il progetto precede l’assegnazione a Rio delle Olimpiadi, gravitando solo indirettamente nell’orbita dei grandi eventi. Eppure, anche rispetto alla babele di opere previste per il 2014-16, resta probabilmente l’operazione urbanistica più significativa misurandosi con la principale anomalia della città , che non riguarda solo le onnipresenti favelas ma una spazialità  davvero unica, costruita su una contrapposizione perentoria tra informale e formale, morro e asfalto, tutta però giocata sulla prossimità . Si tratta innanzitutto di una contiguità  spaziale, nella misura in cui le favelas, anziché periferizzarsi, si insinuano per lo più negli interstizi dell’asfalto, anche in pieno centro; e quindi di una continuità  economica, nella misura in cui la città  vive della sovrapposizione di formale e informale. Il violento interruttore di questa trama consiste in una ferrea linea del colore che spezza ogni riconciliazione musicale o balneare e asseconda la morfologia sui generis dello spazio urbano. Più che essere una città  di muri Rio è una realtà  di dislivelli, sbalzi improvvisi, percorsi a zig-zag, riflesso di un processo di urbanizzazione continuo e di una rete parallela che ha finito per gestirlo ruotando sull’economia del trafico controllata da gruppi armati in lotta.
Dagli anni della dittatura a oggi, oscillando tra interventi militari e logiche clientelari o partecipative, lo spazio urbano è il risultato di questi processi carsici di fusione tra formale e informale, interesse pubblico e privato, monopolio legittimo e illegittimo della violenza. È su questo territorio magmatico che si innesta il progetto del teleférico, all’interno del piano più generale di democratizaà§à£o e socializaà§à£o del Pt, teso a formalizzare l’informalità , normalizzare l’eccezione e «lottare contro la segregazione urbana». L’acronimo dell’operazione è Pac (Programa de Aceleraà§à£o do Crescimento) e le favelas ne sono il fulcro. La questione infrastrutturale, di accesso e mobilità , è quindi decisiva, ideale punto di giunzione tra politiche sociali e urbanistiche, ma il discorso trova il suo centro nella sicurezza. L’inaugurazione del telefèrico avviene infatti otto mesi dopo l’irruzione nel Complexo di nuclei speciali di polizia (Bop) e marina militare, che ha scatenato una guerriglia a cui è seguita l’instaurazione dell’«ordine democratico» imposto dalle Unidade de Policia Pacificadora (Upp). In realtà , quella ad Alemà£o è stata la terza o quarta «pacificazione» di favelas, dopo gli interventi nei morros della prestigiosa zona sul, prioritari per la prossimità  ad aree privilegiate o strategiche in funzione dei grandi eventi, e prima di quelli a Rocinha, nell’area intorno al centro, al porto e a nord. Significativamente è stata l’unica davvero cruenta.
Oggi il Complexo è sostanzialmente «normalizzato», e da questo punto di vista Pac e Upp possono essere interpretati come dispositivi di una specifica tecnologia/pedagogia della «conversione». Le favelas sono collegate tra loro e al resto della città  dalla funivia, sul modello di Medellà­n, di cui il telefèrico riproduce i presupposti di inclusione e pure gli effetti striati (creando differenze tra e all’interno delle favelas stesse), oltre a una più generale funzione di sicurezza.
Safari volante
Al coté solare di una politica di estensione della cittadinanza si sovrappone infatti la notte dell’eliminazione degli abitanti legati in qualche modo al crimine organizzato, la demolizione di blocchi di case, ufficialmente perché «a rischio» o sul tracciato del teleférico, e la deportazione di famiglie in altre zone della conurbazione, per lo più nella baixada fluminense, enorme corbeille in cui ogni «scarto» va a confluire. Tutto ciò ha contribuito ad alimentare la percezione del teleférico come elemento intrusivo, sintomo di una politica top-down: nessuno lo avvertiva come intervento prioritario e molti continuano ad affidarsi alle reti di trasporto informali, ai moto-taxi e al kombi. L’utilizzo infatti è molto inferiore alle attese e registra semmai un afflusso maggiore da parte di «turisti» provenienti da altre zone della città . I turisti però avranno solo l’imbarazzo della scelta, dato che da oltre un anno sono iniziati i lavori per due linee teleferiche nello storico morro da Providàªncia, in pieno centro, a cui va aggiunto l’elevador che connette le favelas di Cantagalo e Pavà£o-Pavà£ozinho alla stazione metro di Ipanema.
Nel nuovo mercato del safari aereo in favela ci si può davvero sbizzarrire. Il fatto è che questi interventi implicano soprattutto una rivalutazione immobiliare, sia delle aree adiacenti, affrancate dall’ipoteca dell’insicurezza, sia delle favelas, non immuni da logiche speculative. In altre parole, la sicurezza, che è un bene essenziale, soprattutto nei morros, ha sempre un prezzo. In questo caso la transazione può configurarsi come inclusione in cambio di mercato, in nome della velocità . E il telefèrico diventa il cavallo di Troia del real estate, attraverso l’intervento congiunto di pubblico e privato (catasto, reti telefoniche, compagnie di servizi) che impone le sue logiche ridisegnando territori, scardinando temporalità  ed espropriando esperienze basate non solo sul ricatto della violenza ma anche su forme di mutualità  e spazi comuni. È l’accumulazione per espropriazione che David Harvey identifica come motore della macchina «tardocapitalista». È anche il prezzo della cittadinanza. Integrare la favela alla città  «formale», aumentare la mobilità , significa soprattutto includere su presupposti differenziali, creando cittadini più veloci. più precari e indebitati. Ma forse tutto questo l’aveva già  capito Walter Benjamin e le teleferiche non sono che boulevards sospesi, che aboliscono l’idea di margine e includono selettivamente in uno spazio accelerato e sempre più raggiungibile. Il fatto è che oggi partono da quelli che ci si ostina a chiamare margini.

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I professional e il pianeta degli slums

Il testo in questa pagina sarà  pubblicato sul numero 26 de «Lo Squaderno» («Professionaldreamers», in uscita a dicembre, sito internet: (www.losquaderno.professionaldreamers.net), dedicato a «Spazio Tempo Velocità » e curato da Lorenzo Navone, Andrea Mubi Brighenti e Mariasole Ariot. In questo numero gli autori (tra cui Teresa Stoppani, Andrea Cortellessa, Marco Revelli, Cecilia Scoppetta, Valeria Siniscalchi; Christian Rainer) indagano da diversi punti di vista il rapporto che intercorre tra le tre coordinate logistiche fondamentali. Due i testi più rilevanti nell’analisi del rapporto tra slums e metropoli. Il primo è di Mike Davis («Il pianeta degli slums», Feltrinelli); il secondo è le «Città  ombra» di Robert Neuwirth (Fusi orari).


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