Perché ci affascina la vita delle canaglie

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A chi, mesi fa, mi consigliava di leggerla rispondevo: «Perché dovrei dedicare del tempo alla biografia di un infame fascio comunista russo?». Poi, la settimana scorsa, votando il libro dell’anno per la booklist di Repubblica mi sono trovato a indicare come primo in classifica Limonov di Emmanuel Carrère. Opinione condivisa da altri, dato che primo si è piazzato. Adesso non mi resta che spiegare perché ho continuato a “tappare” con crescente entusiasmo in basso a destra sullo schermo del kindle per seguire questo essere da Mosca a New York, da Parigi alla Serbia.
La ragione per cui alla fine ho deciso di leggere Limonov non è che mi fido dei consigli. Mi fido degli autori. Mi strafido di Emmanuel Carrère.
Soprattutto quando non fa fiction, ma racconta una vita, «vite che non sono la sua», ma ancor più per quello che consideravo fino a Limonov, il suo capolavoro: L’avversario.
Anche lì, la storia di un piccolo grande infame: l’uomo che sterminò la famiglia per non rivelare la menzogna che era la sua esistenza, anni passati a fingersi un medico con un incarico in una organizzazione internazionale. Ha fiuto nella scelta, Carrère. Individua declinazioni decifrabili del Male.
Decifrabili attraverso la letteratura. Se è vero, come insegnava un cronista in un film di Mazzacurati, che il giornalismo deve mantenere “la giusta distanza”, il compito della letteratura è annullarla, penetrare la Storia, qualunque storia. L’amore richiede una versione compassionevole della verità , la politica una illusoria, la letteratura richiede la verità  e basta. Sulle cose e sulle persone.
Carrère non si preoccupa che il protagonista della sua narrazione sia un eroe, neppure che sia positivo. Non cerca di empatizzare, vuole soltanto rendere conto. Non si innamora della canaglia, appena tu lettore stai per farlo ti gela ricordandoti che sarebbe un sentimento mal riposto.
Ogni volta che stai per odiarlo fa l’operazione inversa e ti rammenta che la debolezza è umana, troppo umana e tu l’hai condivisa. Anche tu, se hai vissuto, sei
stato prima o poi Limonov, ma soprattutto avresti voluto, prima o poi, essere Limonov. Per esagerare, perdere alla grande, ritrovarti al tavolo, scegliere per dispetto e credere per rispetto. Di che cosa, infine? Non di un’idea, né degli altri o di se stessi, ma della vita in sé, in quanto esperienza. È come se Limonov avesse scritto la propria autobiografia vivendo. Domandandosi ad ogni bivio: che cosa sarebbe più interessante per il prossimo capitolo? Ah, certo: che andassi in Serbia e frequentassi Arkan. A Carrère non rimaneva che seguire le tracce. In apparenza.
In realtà  occorreva molto di più: bisognava saper arrivare al nucleo della vicenda, al cuore del protagonista.
Pagina dopo pagina la domanda che aveva inizialmente precluso la lettura è diventata: «Perché mi sto appassionando alla biografia di un rosicone che ha fatto successo raccontando il proprio fallimento? ». Il cuore di Limonov, inteso come libro, non è il diario avventuroso di un simpatico cialtrone e neppure il riflesso dis torto
della caduta di un impero. Questi sono due livelli di lettura superficiali. Inseguendo Limonov Carrère va a caccia di una dote che ha intuito sotto i suoi strati di malanimo e velleità : la purezza.
Nella sua versione Limonov è carne viva e ossa rotte. È un’espressione liberata dalla sovrastruttura del pudore. Più che un re nudo, un suddito squartato, viscere e bile, le arterie come un tracciato. Ci sono molte scene in cui questi concetti esplodono. Ne ricordo due, legate entrambe alle sue passioni amorose. In una Limonov, annoiato dal discorso di Solzenicyn in tv, sodomizza la propria moglie. È molto più che gridare: «La corazzata Potemkin è una boiata pazzesca». È sincerità  in azione, connubio di cervello e lombi che sancisce la prevalenza dell’essere sul dover essere. Dissenso verso il dissidente non per conformità  al potere, ma al piacere.
Nell’altra scena Limonov torna a casa e trova la seconda moglie, ninfomane e drogata, sfatta sul letto, che lo implora di non giudicarla senza prima averla scopata. E lui lo fa. L’avrebbe fatto anche senza richiesta. È la sua forma di accettazione degli altri, di sé, della vita stessa. Come in un matrimonio di rito cattolico: in salute e in malattia, nel trionfo e nel fiasco. Dovunque e comunque. È questo che gli consente di oscillare tra gli opposti, trovare il buono nel marcio, sopravvivere ad ogni trapasso storico.
Limonov non è né Hitler né Gandhi, è una figura laterale nella parata del destino, la banalità  del bene e del male sovrapposte in una sola figura. Ci voleva l’occhio di Carrère per scorgerla, dandole luce e verità . È una verità  che ci appartiene, portata all’estremo: tutti abbiamo dentro bivi terribili che possiamo convivere con qualunque scelta e qualsiasi conseguenza.


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