Quel film su Bin Laden che ci precipita nel buio

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DI CACCIA all’uomo, che dovrebbe essere giustizia. Di reciproca disumanità , fra bombe e torture, che il film di Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty non conforta con nessuna comoda morale. Nulla di quanto avviene fra le grida nell’oscurità  dei dannati nell’altoforno del World Trade Center il 9/11 e lo squallore dell’esecuzione di Osama bin Laden nel maggio del 2011 dentro quel suo covo desolato da boss mafioso latitante è, neppure lontanamente, uno happy ending.
Questo film, che i Repubblicani con esemplare stupidità  bloccarono a fine estate per timore che giovasse all’immagine di Barack Obama giustiziere di Bin Laden, porta già  nel titolo l’avvertimento agli spettatori. «Zero Dark Thirty» nello slang militare è la mezzanotte (Zero Hour) più trenta minuti, il momento simbolico del grande buio, la «darkness». Alcuni critici l’hanno salutato come un capolavoro. Gli Accademici di Hollywood si preparano a bombardarlo con raffiche di «nomination» alla cerimonia di autocelebrazione chiamata Oscar.
Ma se la qualità  cinematografica è altissima, la sceneggiatura, la recitazione, l’ambientazione (in India, perché il Pakistan, dove l’azione si svolge, aveva rifiutato il permesso) sono molto belle, nessuna sequenza, per quanto minuziosamente, e documentaristicamente realistica, può rispondere alle domande che lo squarcio nelle Torri di Manhattan, nelle mura del Pentagono e nelle colline della Pennsylvania, aprirono undici anni or sono: perché ci odiano tanto? Perché sono pronti a immolarsi pur di uccidere migliaia di innocenti? È legittimo che i «buoni » torturino e uccidano senza neppure la tragica commedia del processo a Saddam Hussein. Si resta innocenti, e giusti, quando si commettono iniquità  nel nome della giustizia?
È stato detto che il film, dietro la cronaca del lungo viaggio verso la notte di Abbottabad e l’assalto finale, dettagliatamente, fastidiosamente ricostruita dal marito della Bigelow, il giornalista e sceneggiatore Mark Boal già  con lei nel bellissimo Hurt Locker, con dozzine di interviste a soldati, forze speciali, funzionari e personaggi della Cia, è un manifesto femminista. È affidato alla centralità  di una donna, una recluta dell’intelligence americana in Pakistan, che da comparsa diventa il motore primo e unico della caccia a Osama. E sarà  lei la prima chiamata ad aprire la lampo della «body bag», il sacco di tela plastificata nel quale è stato chiuso il cadavere dello sceicco, e a fare il riconoscimento, prima di concedersi un singhiozzo.
La donna, che nel film ha il volto scavato di Jessica Chastain, esiste realmente. È oggi una dirigente all’interno della «Company», la Cia, promossa e decorata, anche se irritata dalla troppa distribuzione di riconoscimenti anche a quei colleghi e superiori contro i quali aveva dovuto battersi per seguire la propria intuizione. Quella di seguire i «corrieri», gli uomini che comunicavano con un Bin Laden forzatamente tagliato fuori da ogni altra forma di rapporto con i propri seguaci e luogotenenti. Ma questo, di identificare e semplificare sempre in un individuo, maschio o femmina che sia, il nocciolo del Male o l’antidoto del Bene è il classico limite del pensiero politico e strategico americano, come della cultura popolare, sempre portata a cercare nello Stalin, nello Hitler, nello «Sceicco del Terrore » di turno la spiegazione di immense tragedie collettive.
La Chastain non è un’eroina per un pantheon femminista, e la Bigelow si fa premura di evitare ogni sottolineatura della sua femminilità . Ne mostra la sua irritazione quando una collega della Cia, in ansia per lei e la sua salute mentale, la invita a «spassarsela un po’» con gli uomini. Un consiglio che lei respinge con un gesto della mano, come per una mosca molesta. Il suo linguaggio è rudemente maschile, genericamente crudo, come quando spiega al Direttore della Cia, Gandolfini nelle vesti di Leon Panetta, che è lei la «motherfucker », la fottimamma, che è arrivata a individuare il corriere di Osama.
Maya, il nome fittizio della cacciatrice implacabile, è l’America. È la signora di bronzo con la fiaccola in mano che guardò impotente fondersi davanti ai propri occhi le Due Torri e nel proprio cuore decise di non avere pace fino alla vendetta. Dunque Maya — curiosa scelta millenaristica per un personaggio che si sarebbe potuto chiamare Jessica, Elizabeth o Nancy o con nomi molto più «anglo» — deve assistere indurendosi il cuore alle torture sui prigionieri sospetti senza obiettare, perché il fine giustifica i mezzi. Sa imparare ad adattarsi al nuovo clima annunciato da Obama nel 2009, quando afferma, nella sola, brevissima clip che vede un personaggio autentico, che «l’America non tortura» e passare dagli orrori del waterboarding, descritto con precisione clinica dalla regista, al lavoro investigativo classico. E se molti suoi colleghi cedono alla spaventosa pressione e all’umiliazione delle sevizie («Ho visto più di cento uomini nudi davanti a me» spiega il tormentatore dei prigionieri «credo che possa bastarmi») lei no, deve resistere. Non deve dimenticare le voci che nell’oscurità  delle Torri in liquefazione chiedevano un’impossibile rassicurazione alle centraliniste del 911, magari prima di lanciarsi dalla finestra dell’80° piano.
Occorre farsi coraggio per andare a vedere questo film che non ha pietà  per chi lo guarda. Se avete paura del buio, o del sole che illumina quello che nel buio accade, non andate a vedere Zero Dark Thirty, perché da quel buio non siamo ancora usciti e forse non usciremo mai.


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