Raccoglievano legna da ardere Dieci bimbe uccise da una mina

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Tutta colpa di una mina sovietica rimasta sepolta per oltre 20 anni. O forse di un ordigno anti-carro di produzione britannica, sotterrato più di recente dai talebani. Mancano dettagli sicuri sulla bomba esplosa ieri nel villaggio di Dawlatzai, nella provincia afghana orientale di Nangarhar. Ce ne sono invece sulle sue vittime: dieci bambine tra i 9 e gli 11 anni, uccise dallo scoppio mentre facevano legna in un bosco vicino al paese. Una di loro, si pensa, con l’ascia in metallo ha urtato la mina: sono morte quasi tutte sul colpo, solo una ha resistito fino all’ospedale per poi arrendersi. Altri ragazzini e ragazzine sono rimasti feriti.
«Andavano tutte a scuola, sognavano un giorno di diventare medici, insegnanti o ingegneri. Erano il nostro futuro», ha commentato un anziano del villaggio che ieri è accorso in massa sul luogo dello scoppio, cercando di capire di chi fossero quei poveri corpi. Impresa non facile, solo quattro ragazzine sono state subito riconosciute, le altre erano troppo sfigurate. Poi la processione con i resti delle bambine su letti di legno usati come barelle, coperti da lenzuola a fiori colorati. Misere cose tolte in fretta dalle case.
La strage delle innocenti stringe il cuore, ma in fondo non può sorprendere. «Dopo oltre tre decenni di conflitti, l’Afghanistan è diventato uno dei Paesi con più campi minati del mondo», ha ricordato ieri a Kabul il generale americano John Allen, comandante dell’Isaf, la missione Nato. «La tragica e crudele verità  è che purtroppo le mine non fanno distinzioni tra le vittime», ha aggiunto, senza ricordare però che nemmeno i raid della Nato fanno molti distinguo tra gli obiettivi. Certo per sbaglio, ma succede anche a loro di ammazzare bambini: lo scorso febbraio otto pastorelli, di età  compresa tra i 9 e i 15 anni, sono stati massacrati da una bomba lanciata da un caccia sulle colline a nord di Kabul. «Avevano un comportamento sospetto, ci hanno indotto in errore», è stato il commento dei militari, seguito poi dalle scuse.
Questa volta nessuna scusa, da chi dovrebbe venire? I sovietici che hanno invaso l’Afghanistan dal 1979 al 1989, riempiendolo tra l’altro di mine (ne avrebbero lasciate 10 milioni), fanno parte ormai della Storia. Quasi come le tre guerre dell’Impero britannico che nell’Ottocento e a inizio Novecento tentò invano di conquistare il Paese. Dopo i sovietici ci fu il devastante conflitto interno, poi l’era dei talebani al potere, quindi l’invasione degli americani affiancati infine dalla Nato. Ognuno, a parte gli inglesi del Grande Gioco (la tecnologia della morte era allora arretrata), ha lasciato la sua eredità  di micidiali ordigni sepolti. E l’emergenza infinita, quasi ininterrotta ormai da decenni, ha reso impossibile una vera bonifica del Paese, soprattutto delle sue mille valli sperdute, delle montagne altissime e isolate. Intanto, altre mine si sono aggiunte, e ogni giorno si aggiungono, per mano dei «talebani», termine vago che definisce tutte le forze contrarie al governo e alla Nato.
Qualcosa si è fatto in realtà  per sminare l’Afghanistan ma secondo l’Onu dal 2002 sono stati disattivati solo 700 mila ordigni. Ne restano 15 milioni nascosti in quella che i tecnici anglosassoni chiamano «lasagna effect», effetto lasagna: metafora culinaria per definire la stratificazione di macerie e ordigni terrestri ai piedi degli edifici afghani o di quel che ne resta, nel terreno nelle zone di maggiore passaggio. E non è un caso che Emergency continui ad aprire nuovi centri di pronto soccorso dedicati soprattutto alle vittime di quelle bombe antiuomo, diffuse ovunque insieme alle bombe a grappolo. Perfino nel bosco delle bambine, zona «calda» per il vicino confine pachistano ma comunque sperduta, c’erano almeno due strati di «lasagna», il sovietico e il talebano.


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