Anticapitalisti ma libertari. La miscela di Sel

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Le domande, almeno all’apparenza, sono semplici. Persino ovvie. È una risorsa o un problema, per il centrosinistra, Nichi Vendola? Proporsi come una forza della sinistra nello stesso tempo radicale e responsabile, come fa Sel, è un impraticabile ossimoro o una ragionevole speranza? Nel caso (probabile) di vittoria elettorale del cartello progressista, quanto è alto il rischio che poi le cose vadano a finire come con Rifondazione comunista nel 1998 e nel 2008, e cioè malissimo?
Le risposte, invece, sono più complicate. A sinistra le divisioni, le rotture, le scissioni hanno un cuore antico, anche perché di mezzo, da un secolo e passa, ci sono sempre questioni identitarie. Può essere utile, allora, provarsi a guardare dentro l’identità  di Sel per come la percepiscono non tanto i leader o gli elettori, ma quelli che un tempo si chiamavano i «quadri intermedi», quei militanti di corso (relativamente) lungo che non vanno in tv, ma dei partiti (in particolare di quelli di sinistra) costituiscono comunque l’ossatura, l’anello di congiunzione con la società  e il termometro. Paola Bordandini, docente di Metodologia della Scienza politica a Bologna, lo ha fatto in un interessante libretto che esce in questi giorni da Donzelli, «La spada di Vendola». Prendendo a campione i delegati a congressi (per Sel, quello del 2010) e assemblee nazionali dei partiti di centrosinistra, chiamati a rispondere a un accurato questionario, centrato soprattutto sul loro sistema di valori e sulle loro credenze. E, prima ancora, a raccontarsi stringatamente.
I «quadri intermedi» di Sel hanno un’età  media di 45 anni, sono, per il 50 per cento, laureati, si dichiarano attivi (80 per cento) nell’associazionismo ricreativo e culturale, nel sindacato (60 per cento), nel volontariato laico (50 per cento). Il 52 per cento è impegnato, o lo è stato, nelle assemblee elettive. Quanto alla loro storia, solo il 14,3 per cento è alla sua prima esperienza: l’81 per cento ha militato nelle file del Pci o di uno dei suoi eredi, Rifondazione e il Pds-Ds. E la loro formazione politica è, diciamo così, novecentesca: una famiglia di sinistra (73 per cento), il partito (57 per cento), il sindacato (45 per cento). Fin qui, niente sorprese: la foto di gruppo, anzi, sembrerebbe già  alquanto ingiallita. Ma ciò non toglie che il 60 per cento degli interessati si dica profondamente convinto che le sorti di Sel siano indissolubilmente legate a quelle di Vendola.
Dunque: per quanto classiche, e persino vecchiotte, possano risultare le loro biografie, i compagni delegati non hanno troppi problemi a riconoscersi in un partito che, basato com’è su una leadership personale atipica, ma a suo modo carismatica, non assomiglia all’ennesima riproduzione in sedicesimo dei partiti «storici» della sinistra. Pensano, evidentemente, che una simile miscela di vecchio e di nuovo possa funzionare più di quanto in passato abbia funzionato la formula delle «due sinistre», sempre oscillanti tra lo scontro aperto e la faticosa ricerca di un compromesso. Soprattutto da quando le primarie sono diventate un tratto distintivo del centrosinistra. Vendola (due volte) in Puglia, Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Doria a Genova: non deve essere un caso se Sel in tutte queste circostanze è riuscita a selezionare e portare alla vittoria outsider alternativi ai candidati «ufficiali», senza mai varcare la soglia di tolleranza nei rapporti con il Pd.
Non è detto, ovviamente, che questo inedito modello possa funzionare anche per una maggioranza di governo, soprattutto se questa si fondasse su un’intesa con un centro moderato che, per bocca del suo nuovo leader, Mario Monti, ha chiesto a Pier Luigi Bersani di «silenziare» non solo Vendola, ma pure Stefano Fassina e Susanna Camusso, tutti accusati di «conservatorismo» di sinistra. Ma quanto è “conservatrice” Sel? Con buona pace di chi rappresenta Vendola come un bolscevico, il 70 per cento degli intervistati è molto o abbastanza incline a definirsi socialdemocratico e riformista piuttosto che comunista, il 69,6 ha fiducia nell’Unione europea, e c’è pure un 40 per cento convinto che una società  libera non possa fare a meno del libero mercato. Ma la grande maggioranza pensa che la difesa dello stato sociale sia un dovere primario, così come la lotta contro la privatizzazione dei servizi pubblici, e continua comunque a ritenere che occorra battersi per una società  alternativa a quella capitalistica. Il 78 per cento professa un pacifismo assoluto, e il gradimento della Nato non supera il 10 per cento.
A rendere originale (e quindi, comunque la si giudichi, non conservatrice) l’identità  di Sel nella storia e nel panorama attuale della sinistra italiana è però soprattutto una cultura libertaria dei diritti assai radicata, e condivisa dalla quasi totalità  dei suoi quadri, nella cui esperienza i temi etici hanno un ruolo decisivo. Il 90 per cento chiede al governo (a qualsiasi governo) di difendere con maggiore energia la laicità  dello Stato, l’80 coltiva un antiproibizionismo che dalla legalizzazione delle droghe leggere si estende all’aborto, ai diritti degli omosessuali, alla procreazione assistita, solo il 3,1 pensa che la Chiesa abbia il diritto di intervenire come crede sulle decisioni di governo e Parlamento. Forse esagera Paola Bordandini, quando sostiene che la frattura Stato-Chiesa è l’unico, tra i cleavages storici attorno ai quali si sono contrapposte destra e sinistra, a mantenere intatta la propria attualità  in tempi in cui le differenze in materia economica e sociale si sono fatte molto più sfumate. Ma se c’è un terreno sul quale è lecito già  ora immaginare possibili contrasti prossimi venturi anche con il Pd, nel quale i quadri intermedi di origine Pds-Ds la pensano più o meno allo stesso modo, probabilmente è questo: al cattolico praticante Vendola il compito di schivarli o, almeno, di depotenziarli.


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