Chiamata all’alba per pescare il jolly dall’Antimafia

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ROMA — L’accendino argentato l’aveva in tasca anche ieri, come sempre nei giorni importanti. Non è suo ma di Giovanni Falcone, che glielo consegnò durante un volo Roma-Palermo: «Ho deciso di smettere di fumare, tienilo tu; se dovessi ricominciare me lo ridarai». Non ce ne fu l’occasione, perché Falcone morì poco tempo dopo, straziato dal tritolo mafioso insieme alla moglie e a tre agenti di scorta. «Quando lo tocco ripenso agli insegnamenti di Giovanni, e mi dà  la forza di andare avanti», ripete Pietro Grasso, appena eletto presidente del Senato. E nella nuova veste, al primo discorso, non poteva non ricordare la strage di Capaci e quello che ha significato per il Paese. Come quella di via Fani che accompagnò il sequestro di Aldo Moro, altra tappa drammatica della storia repubblicana, di cui giusto ieri cadeva il trentacinquesimo anniversario.
Ha voluto citare le parole della vedova piangente di un agente della scorta di Falcone, disposta a perdonare i mafiosi assassini se solo si fossero inginocchiati, avessero chiesto perdono e promesso di cambiare. «La giustizia e il cambiamento sono la sfida che ancora oggi abbiamo davanti», aggiunge Grasso parlando ai senatori. E invoca una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi ancora insolute, tra cui si possono annoverare quelle della sanguinosa primavera-estate del 1992, sulle quali pure lui ha continuato a cercare la verità  fino a tre mesi fa, da procuratore nazionale antimafia. Ora ha un altro ruolo, e mentre attraversa veloce i corridoi di palazzo Madama, durante il ballottaggio che lo proclamerà  vincitore con venti voti di scarto, sta già  pensando a quello che dovrà  dire se verrà  eletto. Ma non si lascia sfuggire nulla: «Capirete, anche per scaramanzia… Diciamo che sono in conclave». Nella stanza del gruppo parlamentare democratico dove si chiude per preparare l’intervento lo raggiunge la moglie, che poi va ad assistere in tribuna alla proclamazione e confida: «Stamattina ci siamo svegliati “normali”, con l’idea già  accarezzata nei giorni scorsi che d’ora in avanti avremmo avuto un po’ più di tempo a disposizione rispetto al passato. Invece eccoci qua, è cambiato di nuovo tutto».
La sveglia è arrivata con la telefonata di Bersani che gli annunciava la scelta del partito democratico, poco dopo l’alba. E così, l’avventura politica dell’ex procuratore nazionale antimafia l’ha portato in poche settimane allo scranno più alto del Senato. Quando decise di lasciare la toga per una candidatura in Parlamento pensava a un posto da ministro, della Giustizia o dell’Interno, ma l’esito elettorale aveva rabbuiato ogni prospettiva. Fino alla sorpresa di ieri mattina, che l’ha lasciato di stucco ma anche lusingato. E pronto ad accettare la proposta. Con lui, la presunta terza Repubblica (se ancora hanno un senso queste definizioni delle stagioni politiche) comincia con un magistrato assurto alla seconda carica dello Stato, in un momento in cui il conflitto tra politica e giustizia ha di nuovo raggiunto livelli alti e per molti versi allarmanti.
Il caso ha voluto che il confronto finale si consumasse tra lui — giudice e inquirente antimafia per una vita, fino alla direzione della Superprocura — e l’ex presidente del Senato che tuttora è indagato per concorso in associazione mafiosa. La richiesta di archiviazione della Procura di Palermo pende davanti al giudice dell’udienza preliminare, che deciderà  nei prossimi giorni, dopo che già  in passato Schifani era stato inquisito e archiviato per associazione mafiosa undici anni fa, nel febbraio 2002. Su sollecitazione dell’ufficio giudiziario all’epoca guidato proprio da Grasso. Storie passate e presenti che non impediscono al nuovo presidente del Senato di rivolgere un pubblico ringraziamento al suo predecessore e sfidante («io sono sportivo», aveva scherzato prima), accompagnato dall’applauso dell’aula. E da una calorosa stretta di mano riservata anche a Berlusconi.
Grasso ha voluto garantire all’ex premier che sarà  di il presidente «di tutti, non solo di una parte». Una rassicurazione non di routine, nel giorno in cui Berlusconi sferra un nuovo attacco contro la magistratura. Altra coincidenza: due dei pentiti di mafia che più si sono soffermati sui presunti legami tra Cosa nostra e Forza Italia – Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza – hanno deciso di collaborare con la giustizia affidando le loro prime confessioni proprio a Grasso, che li ha sempre considerati attendibili. Anche per questo non ha avuto molto senso l’accusa che gli sferrò l’ex collega Ingroia, all’inizio della campagna elettorale, quando disse che Grasso era stato scelto da Berlusconi come procuratore nazionale antimafia.
La figura del neopresidente del Senato resterà  per sempre legata alla sua esperienza di giudice del maxi-processo istruito da Falcone e da Paolo Borsellino, sotto la guida di Antonino Caponnetto di cui pure l’ex magistrato ha voluto ricordare ieri le parole che gli disse quando stava per entrare nell’aula-bunker dell’Ucciardone: «Fatti forza ragazzo, tieni la schiena dritta e vai avanti seguendo la tua coscienza». È l’invito che il neo-presidente allarga ora a tutti i nuovi colleghi, invitandoli a fare del Parlamento una casa di vetro, «e speriamo che questa scelta possa contagiare le altre istituzioni». Dopo il «maxi» Grasso continuò a collaborare con Falcone al ministero della Giustizia, per poi approdare alla Superprocura come semplice sostituto. Nel 1999 succedette a Caselli alla guida della Procura palermitana, dove si mostrò prudente e attento a ogni conseguenza, non solo giudiziaria, delle proprie scelte. Non mancarono le divisioni e gli attriti, anche aspri, con una parte dell’ufficio. Come quando non firmò l’appello contro l’assoluzione di Andreotti (dopo esseri presentato sul banco dell’accusa il giorno della sentenza). O sulla gestione del caso Cuffaro. La Procura di Grasso inquisì e fece condannare l’ex governatore siciliano, che ieri ha seguito l’elezione dalla cella del carcere di Rebibbia in cui è rinchiuso da due anni. Fino all’ingresso in carcere per favoreggiamento alla mafia sedeva a palazzo Madama, dove da ieri «governa» il suo inquisitore.
Giovanni Bianconi


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