“Demografia e investimenti così continuiamo a crescere”

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«La chiave per spiegare il successo dell’Africa sta in tre parole: demografia, produttività , capitali. Simmetricamente nelle stesse tre parole sta la spiegazione della paralisi che affligge sia l’America che l’Europa». Dambisa Moyo, master ad Harvard e poi allieva di Paul Collier ad Oxford, dopo una fulminea carriera negli uffici studi delle banche d’investimenti anglosassoni è considerata la più prestigiosa economista africana. Editorialista del Financial Times, vive tra Londra e New York ma spesso torna nel suo Zambia, «dove sto cercando di impiantare un’attività  che mi consenta di poterci restare sempre più a lungo», ci confida al telefono. Sta per venire in Italia per presentare il suo ultimo libro, Winner take all: China race for resources.
A proposito di Cina, lei si è dichiarata favorevole agli interventi di Pechino nel territorio africano, visti invece da molti come manovre “di rapina”…
«Macché rapina. Non passa giorno senza che venga annunciata un’importante joint venture fra la Cina e qualche paese africano. Ne nascono aziende capitalizzate, efficienti, che creano massiccia occupazione. Altrettanto vale per gli investimenti degli altri Bric, India, Russia e Brasile. È una causa primaria del grande sviluppo africano dell’ultimo decennio. Che guarda caso è cominciato con l’affermarsi dei Bric. I luoghi comuni sull’Africa che sono duri a morire: l’Fmi calcola che dal 2003 ad oggi la crescita media di tutti i 48 paesi sub-sahariani è stata fra il 5 e il 7%. Negli ultimi dieci anni, sei fra i 10 paesi a più forte crescita del mondo sono africani, nel 2012 cinque hanno battuto la Cina e 21 l’India. Se pensiamo che l’Africa contribuisce ancora per non più del 2% all’interscambio mondiale, ci rendiamo conto di quanto i potenziali di crescita siano immensi».
Ma se tutto questo si deve agli investimenti dei Bric, allora è vero che quando l’Africa contava solo sugli aiuti americani ed europei questi fondi finivano, come diceva lei in
Dead Aid, con l’ingrassare dittatori spregiudicati, finanziare eserciti aggressivi, alimentare le rapaci burocrazie delle Ong?
«Intendiamoci: non succedeva solo in Africa ma ovunque ci fosse da sovvenzionare uno Stato. Ora, sarà  una coincidenza, ma per la crisi gli aiuti americani ed europei sono quasi cessati. E contemporaneamente si è trovato un modello di sviluppo più convincente con investimenti produttivi diretti meglio finalizzati. Un vecchio assioma in economia sostiene che finché la gente non guadagna 12mila dollari l’anno non c’è sviluppo. L’Africa dimostra il contrario. Va poi detto che cresce il numero delle democrazie con governi eletti e sottoposti a regolari verifiche. In Africa ma non solo: un caso eclatante del 2012 è la Birmania».
Perché diceva che gli stessi elementi alla base della crescita africana sono il motivo dei guai dell’occidente?
«Analizziamoli. Demografia. L’occidente invecchia, l’Africa è giovane. Il 60% della popolazione ha meno di trent’anni, tutti pieni di volontà , di grinta, di voglia di lavorare ed emergere. Produttività . Gli incrementi di efficienza sono impressionanti, molto superiori a quelli europei e americani. Capitali. L’America è penalizzata dal debito privato, l’Europa da quello pubblico. L’Africa vive la condizione opposta: il flusso di capitali freschi soprattutto dai Bric è continuo e copioso. Il debito pubblico non supera il 40% del Pil, quello privato è inesistente. Ci sono altri fattori di crescita, dallo sviluppo delle telecomunicazioni alla diversificazione: l’85% dei titoli trattati nelle 19 Borse africane non riguarda le commodities. Così come non è vero che la Nigeria dipende dal petrolio: le maggiori aziende sono finanziarie».
Quali sono i casi di successo più clamorosi?
«Il mio preferito resta il Ghana, che nel 2012 non è cresciuto come lo stupefacente +14,4% del 2011 ma è sempre in corsa. Vedo bene poi lo Zambia, dove le emissioni di
bond ormai sono meno onerose che in Italia. L’intero blocco est va benissimo: il Kenya sta attrezzandosi per la transizione verso un’economia non più dipendente dalle
commodities ma da una base industriale solida, Uganda e Tanzania hanno ottime prospettive. Invece mi sorprende veder citato nei report favorevoli il Sudafrica, dove in realtà  la macchina si è inceppata. Lo sa perché? Perché ha legami troppo stretti con Europa e America».


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