I soldati uccidono ragazza di 21 anni

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Sono rimasti feriti anche due uomini. Secondo fonti palestinesi, i militari hanno cominciato a sparare senza motivo appena scesi da un veicolo civile all’entrata del campo, e la ragazza – che camminava con altre persone verso l’università  – è stata colpita. Secondo alcuni testimoni, i soldati hanno anche impedito all’ambulanza di portare soccorso ai feriti, dieci minuti dopo la sparatoria. Per la polizia israeliana, invece, si è trattato di una protesta di giovani palestinesi che hanno tirato sassi. Ieri, è morto all’ospedale Hadassah Ein-Kerem di Gerusalemme il giovane palestinese di 15 anni, gravemente ferito al volto da proiettili delle forze armate israeliane durante gli scontri che si sono verificati venerdì scorso, nei pressi di Betlemme.
Dopo il riconoscimento della Palestina come stato non-membro dell’Onu, nel novembre scorso, gli scontri si sono intensificati in Cisgiordania per la costruzione di nuove colonie decise dal governo di Tel Aviv. L’affermazione elettorale di Naftali Bennett, capo del partito di estrema destra La casa ebraica (l’ex Partito nazionale religioso, Pnr), ricco uomo d’affari nonché leader del movimento dei coloni, aumenta ulteriormente il peso dei circa 540.000 israeliani, che vivono in Cisgiordania o nella parte orientale di Gerusalemme, terre rivendicate dai palestinesi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, con i suoi 31 seggi totalizzati, dovrà  probabilmente allearsi con gli ultraortodossi se vuole mantenersi al potere e raggiungere i 61 deputati necessari alla maggioranza: con il partito nazionalista religioso Habayit Hayehudi (11 seggi), gli ultraortodossi (18 seggi) e il ridimensionato Kadima, di destra meno accesa (solo 2). Di certo non conteranno Meretz (6 seggi), che si dice pacifista e di sinistra, né i cosiddetti «partiti arabi»: la Lista Araba Unita (5), il fronte giudeo-arabo Jadash (4) e il Fronte democratico arabo (3). Né di certo conteranno quelle centinaia di israeliani che hanno «offerto» il proprio voto «a un palestinese sotto occupazione o in esilio» su Facebook e hanno protestato contro «un sistema elettorale antidemocratico» che considera gli oltre 280mila residenti palestinesi a Gerusalemme (privati di ogni diritto di cittadinanza dopo l’annessione della Città  santa a seguito della Guerra dei Sei giorni nel ’67) semplici «residenti».
«Dopo le elezioni in Israele, la Palestina è disposta a lavorare con qualunque governo si formi, a patto che rispetti la risoluzione delle Nazioni Unite e riconosca lo Stato della Palestina sulla base dei confini esistenti prima del 1967», ha affermato ieri il ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Malki, davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in una sessione sul Mediorienteha ribadito ai Quindici al-Malki. E, in merito ai risultati delle legislative che si sono svolte martedì in Israele, Hanan Ashraui, del comitato esecutivo dell’Olp, ha dichiarato che i palestinesi non sperano «nella comparsa o nella rinascita di una coalizione della pace o di un campo della pace», e che non negozieranno «con nessun governo che accetti gli insediamenti». Da Gaza, Fawzi Barhu, portavoce del movimento islamico Hamas, ha detto: «I risultati hanno favorito i partiti più fanatici e razzisti, che sono d’accordo a mantenere l’ideologia sionista, basata sul giudaismo e la colonizzazione, oltreché sull’espulsione dei palestinesi».
Una situazione che rende puntuali le dichiarazioni rilasciate a Le Monde dal pacifista israeliano Michel Warschawski, uno dei veterani della lotto contro l’occupazione e la colonizzazione dei territori palestinesi: «Il mondo intorno a noi cambia, Hamas risulta rafforzato dall’ultima guerra a Gaza, le relazioni con Washington sono pessime, ma la nostra classe politica è incapace di correggersi. Vuole credere che quel che non funziona con la forza funzionerà  con ancora più forza. È il frutto di una mentalità  coloniale. Mi sembra di essere su una barca, in un mare in burrasca, con un capitano ubriaco e senza bussola».


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