Il lascito dell’Avvocato

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Perfino gli operai di Milano! Fu il povero Pirelli ad andarci di mezzo. A scanso di smentite da parte dei Cipputi d’allora o dei sindacalisti come Sergio Cofferati, Pirelli era molto migliore. Non era un ladro, Pirelli, almeno non tanto, e cercò anche di svecchiare la Confindustria con il Rapporto che portava il suo nome e che fu silurato dai poteri forti arroccati nel loro fortino romano.
Agnelli invece accumulò all’estero, in qualche paradiso fiscale, molto denaro, miliardi di euri (euri, come invitava a scrivere Luigi Pintor) in seguito oggetto di litigio tra la figlia Margherita, la moglie di Gianni Agnelli Marella e i giovani Elkann, John, Lapo, Ginevra, figli della prima.
Miliardi sfuggiti al fisco italiano e agli azionisti Fiat, tanto gli azionisti comuni che i superazionisti del circolo familiare, le decine di eredi del nonno senatore Giovanni Agnelli. Questi lasciò al nipote Gianni il segno del comando: un pacco di azioni che sovrastava di gran lunga i pacchetti degli altri eredi, fratelli e cugini. Il senatore Giovanni Agnelli nipote, il cosiddetto avvocato, di cui si celebra il decimo anniversario della dipartita alla presenza di Giorgio Napolitano, aveva ereditato anche una pletora di cortigiani – veri avvocati, contabili, amministratori, faccendieri, maggiordomi, politici, eleganti sportivi, ciarlieri perditempo – che gli resero la vita comoda, tenendolo al riparo da ogni fastidio, di fisco e di procure della repubblica soprattutto. Quando morì, cadendo da un alto viadotto autostradale, il povero figlio Edoardo, divenuto musulmano sciita e per altro già  escluso dalla successione, non vi fu alcuna inchiesta approfondita. Quando Silvio Berlusconi si vanta di essersi fatto da sé, di certo esagera, ma si confronta di certo con la vita comoda. le fortune originarie e i pochi processi del signor Fiat.
Agnelli sorprese tutti pretendendo di diventare presidente della Confindustria a metà  del decennio settanta del secolo scorso. Fece un eclatante accordo sindacale sul punto unico di contingenza. Il suo interlocutore era Luciano Lama, segretario della Cgil. L’obiettivo era di ridurre le tensioni di lavoro. CONTINUA|PAGINA 5 L’accordo non resse molto, spazzato dall’inflazione. Agnelli si annoiò assai presto degli impegni romani e lasciò l’incarico dopo solo due anni. Della Fiat, nel bene e nel male, non si occupò mai molto, lasciando fare ai Romiti di turno. Oggi si tende a parlare di lui come di un sapiente dirigente industriale, tutto dedito alle fabbriche di motori. Era invece molto più interessato alla finanza, a comprare e vendere imprese, qui e là , in Italia e fuori.
Gli chiesero di entrare in politica ma gli sembrava sempre troppo poco. Così si fece sostituire dal fratello Umberto, esponente democristiano e dalla sorella Susanna, al governo come ministro degli esteri. Quando toccò a lui divenire senatore a vita, per nomina del presidente Cossiga, esitò a lungo tra destra e sinistra. Quando si trattò di scegliere il nuovo presidente del Senato, affermò che avrebbe dato il suo voto decisivo a un tal Carlo Scognamiglio contro il presidente uscente Giovanni Spadolini. Spadolini, sconfitto ne ebbe un dolore acuto dal quale non si riprese più.
Colleghi di Agnelli, industriali potenti, lasciarono dietro di sé fondazioni culturali e scientifiche, grandi restauri, opere d’arte, edifici per l’uso pubblico, da ricordare. Non così Agnelli, che non sembra aver lasciato niente agli altri che valesse la pena di essere ricordato, se non la piccola quadreria in cima al Lingotto. In effetti temeva che di ogni suo lascito avrebbero goduto soprattutto gli operai, proprio quelli che avevano detto così male di lui.


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