La fabbrica (infinita) dei derivati, spuntano maxi-premi ai manager

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SIENA — Non ci sono solo i derivati «Santorini» e «Alexandria» sotto la lente dei magistrati di Siena nella doppia inchiesta sull’acquisizione di Antonveneta e sull’esposizione dell’istituto ai contratti strutturati. Le operazioni in derivati di Mps sotto la gestione dell’allora presidente Giuseppe Mussari e del direttore generale Antonio Vigni sono molte di più, e parecchie sono sotto scrutinio da parte dei pm Antonino Nastasi, Giuseppe Grosso e Aldo Natalini e del nucleo valutario della Guardia di Finanza, per le caratteristiche dei contratti, per il modus operandi e per i soggetti (manager e uomini delle banche d’affari) che hanno realizzato i contratti. A sollevare i dubbi degli inquirenti è stato, fra le altre cose, l’enorme ammontare dei titoli di Stato in portafoglio: oltre 22 miliardi, il cui acquisto fu finanziato in gran parte con operazioni di «pronti contro termine» a scadenze anche molto lunghe (fino a 30 anni, a differenza di quanto avviene di solito sul mercato).
L’ipotesi di reato è appropriazione indebita e falso in bilancio. Ci sarebbero anche persone iscritte nel registro degli indagati: in Procura però massimo riserbo. «Il procuratore e i sostituti procuratori non rilasceranno dichiarazioni in relazione alle indagini in corso sulla vicenda Banca Mps», recita un curioso avviso sulla porta della Procura.
Ma anche la Procura di Milano si era interessata a Mps, aprendo «autonomamente» un fascicolo su «Alexandria» affidato al pm Giordano Baggio per appropriazione indebita e truffa da parte di alcuni funzionari della banca: l’ipotesi è che vi siano state retrocessioni, ovvero presunti «premi» in denaro a manager Mps per aver realizzato l’operazione. Poche settimane fa il fascicolo è stato però spedito per competenza a Siena, dove s’è unito agli altri faldoni. In sostanza si ipotizzano tangenti.
Mentre «Santorini» (realizzato con Deutsche Bank) e «Alexandria» (realizzato con Nomura) avrebbero avuto la funzione di spalmare negli anni le perdite (fino a 740 milioni) per non farle figurare nel bilancio 2009 grazie all’applicazione di diversi criteri contabili, le altre operazioni della banca non comporterebbero rischi particolari. Ieri l’amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, lo ha detto in assemblea a proposito del contratto «Patagonia»: «Non è oggetto di indagine interna (condotta con l’assistenza di Eidos Partners, ndr), perché non presenta elementi di rischio per la banca». Anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha sottolineato da Davos che per Mps «le responsabilità  individuali sono emerse di recente e le eventuali perdite non sono tali da compromettere la stabilità ». Il terzo contratto, «Nota Italia», presenta minori rischi ma è ancora sotto indagine interna. Dei tre, quello più delicato è indubbiamente «Alexandria», per il quale esiste un documento segreto, il «mandate agreement» che potrebbe rivelarsi compromettente per Mussari. L’attenzione sarebbe anche sui protagonisti di quell’affare. A trattare l’operazione a Londra ci sarebbe stato direttamente il top management di Mps.
Il faro dei pm sarebbe per ora solo sui manager perché il consiglio di amministrazione, come ha specificato la stessa banca, non aveva accesso agli atti. Dai verbali del board in effetti non emergono («almeno ufficialmente», sottolinea un inquirente) discussioni sui derivati. Da essi emerge piuttosto una preoccupazione crescente sul carico enorme di titoli di Stato italiani in portafoglio e sui vincoli allo smobilizzo, che li rendevano di fatto indisponibili se non a rischio di forti perdite. Il dibattito si intensificò in consiglio a partire da settembre 2011, quando era già  esplosa la crisi del debito sovrano e poi con la richiesta di 3 miliardi da parte dell’Eba, l’autorità  bancaria europea. A premere per un riequilibrio del portafoglio furono soprattutto Francesco Gaetano Caltagirone («Vanno presi provvedimenti al fine di alleggerire queste posizioni») e Frederic De Cortois (Axa), appoggiati da alcuni consiglieri come Ernesto Rabizzi o Alfredo Monaci.
Ma anche l’altro fronte dell’indagine, quello per ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio sulla maxi-acquisizione di Antonveneta dal Santander, potrebbe riservare sorprese. Se l’ipotesi della maxi-tangente da 1,2 miliardi viene considerata «fantasiosa» da chi conosce le carte, dalla ricostruzione di come Mps si avvicinò ad Antonveneta starebbero emergendo particolari inediti come il ruolo di Rothschild, che per prima avrebbe proposto Antonveneta ai senesi (la banca d’affari assisteva gli olandesi di Abn Amro nella contesa con la Bpi di Gianpiero Fiorani), o la inconsistenza della proposta alternativa di Bnp Paribas da 8 miliardi che sarebbe stata la molla a spingere Mussari a mettere sul piatto 9 miliardi. In contanti.
Fabrizio Massaro


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