New New Deal

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Dove affonda le sue radici la crisi profonda della sinistra, il suo apparente ritrarsi in un passato ormai perduto? Rinvia solo alla dimensione della memoria quel vasto universo di differenti sinistre laiche o “di classe”, quell’«orizzonte di esperienza e di speranza, di soggezione e di ribellione, di ragioni e di passioni, di vittorie e di sconfitte » che è parte costitutiva della nostra storia? Dove trae origine quell’apparente inversione di ruoli nello scontro fra “vecchio” e “nuovo” che sembra talora confinare la sinistra a un ruolo “conservatore”? Qual è infine la specificità  italiana, con quali modalità  si sono prodotte da noi le lacerazioni del neoliberismo, si sono accumulate le sue macerie, si sono quasi dissolti gli anticorpi possibili? E, soprattutto, quali possono essere gli strumenti analitici e i contenuti di una rifondazione della sinistra capace di innescare nuovi percorsi e di dar corpo a un nuovo progetto?
Da domande come queste prende esplicitamente avvio l’ultimo libro di Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (in uscita oggi da Mondadori), con l’altrettanto esplicita “avvertenza” che si tratta di un saggio «provocatorio e inattuale, perché parla di politica come di una cosa seria, sottratta al ghigno e al vituperio». Ne parla intrecciando gli strumenti della politica e della storia a quelli della filosofia. Rinviando costantemente, ad esempio, ai filoni del razionalismo, del pensiero dialettico e di quello negativo, pur avvertendo che nell’intreccio con la filosofia la politica «corre il rischio di essere plagiata […], di svanire in una astratta e geometrica necessità ». Un rischio, certo: eppure quell’approccio intellettuale offre illuminazioni e aperture, suggerisce “spiazzamenti” e talora rovesciamenti di prospettive. In primo luogo nel delineare le differenti forme in cui la sinistra si configura (e si rappresenta): sinistra come soggetto, come parte di una società  ma anche come orientamento che essa vuol imprimere all’insieme, al tutto.
Altrettanto utile è poi la periodizzazione proposta, che al Novecento come “secolo breve” di Eric Hobsbawm, concluso dalla fine del comunismo, sostituisce una sorta di “secolo lungo” che si inoltra in quello successivo ed è scandito da “quattro rivoluzioni”: quelle segnate dal comunismo, dal fascismo, dallo Stato sociale e dal neoliberismo. Lo sguardo si concentra soprattutto sulle ultime due, analizzate nei loro contorni generali e nelle modalità  con cui investo-
no e trasformano il nostro Paese. A partire dal traumatico passaggio dall’una all’altra, dalla metà  degli anni Settanta, quando iniziano a venir meno alcuni presupposti delle politiche dello Stato sociale: una fase espansiva dell’economia, un’idea forte e condivisa di uguaglianza e di progresso, e così via. Nella rivisitazione di Galli si snodano differenti tappe e “rotture”: la crisi petrolifera, la fine del fordismo, la diffusione della produzione flessibile e l’avanzare dei processi di globalizzazione; il trionfo del neoliberismo, a partire dall’Inghilterra di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan, con l’attacco frontale allo Stato del welfare e con processi colossali di polarizzazione della ricchezza, di disaggregazione e di tendenziale distruzione dell’ampio corpo sociale (ceto medio, in senso ampio) che si era modellato sin lì.
E con le narrazioni che accompagnano l’affermarsi di quella “rivoluzione conservatrice”: il primato dell’economia, dell’individuo e dell’“utile”; l’affermarsi di un «mondo euforico dell’eccesso» in cui tutto sembra possibile; il ripudio (ideologico, e in realtà  tutto “politico”) della politica, con il contemporaneo trasformarsi di essa in «spettacolo o egemonia carismatica […] una sorta di populismo dall’alto». E poi la “fine delle ideologie” e la presunta obsolescenza delle categorie di Destra e Sinistra. Con una specificità  italiana: la “modernizzazione” degli anni Ottanta, annota Galli, si presenta da noi sotto la più accentuata forma dell’euforia sociale e della corruzione politica, appannando quegli stessi elementi che altrove inducono comunque innovazione, se non progresso. E la seconda Repubblica, con la sua forte impronta berlusconiana, appare così l’espressione più compiuta della “rivoluzione neoliberista”, in qualche modo la “prosecuzione con altri mezzi” degli anni Ottanta.
Si consuma in questo percorso anche l’esperienza del più grande partito comunista dell’Occidente, nel suo tradizionale porsi come cardine della nostra democrazia e al tempo stesso come asse di un possibile superamento di essa, o dei suoi limiti. Tensione irrisolta, nella prima Repubblica: fase coincidente, sostanzialmente, con quella costruzione concreta del welfare di cui il Pci non fu — storicamente non poteva essere — protagonista diretto. Ma se da quella fase il Pci è “sfidato”, annota
Galli, dal neoliberismo è sconfitto, e la periodizzazione appare indubbiamente convincente. Con l’irrompere degli anni ottanta crollano davvero alcuni suoi architravi essenziali: l’“egemonia della classe operaia”, ad esempio, viene sostanzialmente “espulsa” dal discorso pubblico a partire dalla marcia dei quarantamila della Fiat, nel 1980 (ma era stata messa in discussione già  prima, sul versante opposto, da alcuni tratti del “movimento del ’77”). Vi è al tempo stesso il cupo tramonto degli ultimi miti internazionali, o la crescente messa in discussione — sull’onda dello shock petrolifero — dell’idea stessa di sviluppo. Infine, nel degradare del “sistema dei partiti” affonda la vecchia idea togliattiana — riproposta in nuova forma da Berlinguer — dell’“alleanza fra i tre partiti di massa” come cardine della trasformazione possibile. Ce n’è d’avanzo: il Pci si trova a navigare nei flutti impetuosi dell’ondata neoliberista senza più rotta, e alla sua scomparsa lascia una sinistra disaggregata e flebile. Inadeguata e “senza parola”, poi, di fronte allo stesso tramontare di quella fase, nel nuovo secolo e nel vivo di una acuta crisi internazionale: con il passaggio «dall’economia del desiderio all’economia del debito, dal dinamismo alla stagnazione, dal progresso alla recessione».
Siamo così all’oggi, e vi sono pagine molto illuminanti sulla temperie culturale e politica più recente, ad esempio sulla divaricazione fra una sinistra riformista e i diversi filoni della sinistra radicale (pallida riproposizione di antiche fratture). O, anche, sulle forme nuove di antipolitica e sulle differenti modalità  dell’astensione e della protesta. Si inserisce qui la proposta fondativa del libro, volta a rovesciare le “sofferenze” e le lacerazioni maggiori degli ultimi trent’anni, i guasti più profondi del neoliberismo. La proposta cioè di rilanciare in forme nuove, e in un quadro europeo molto più coeso dell’attuale, quel nesso fra lavoro e democrazia che la Costituzione sancisce e che è stato l’idea guida della difficile e contraddittoria costruzione del welfare in Italia. La delineazione, in altri termini, di una sorta di new New Deal, a partire da politiche pubbliche volte ad accrescere la forza, il peso e la dignità  materiale e culturale del lavoro: nella piena convinzione che «una società  migliore per il lavoro è una società  migliore per tutti».


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