Parte il «riciclo rifiuti» della finanza sui prestiti a 1,4 milioni di famiglie

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Persone insospettabili raccolgono gli avanzi di ferro nelle campagne o i frigoriferi lasciati ai cassonetti e li portano alle aziende che li reinseriscono nella catena alimentare della produzione. In modo non molto diverso, lo stesso ciclo di smaltimento dei rifiuti si sta riproducendo anche nell’area nella quale la recessione è emersa. Il settore finanziario.
Per le banche, rifiuti e scarti del ciclo produttivo sono i crediti divenuti inesigibili perché il debitore non è più in grado di rimborsare. Si tratta di una materia prima ormai abbondante anche in questo Paese. L’Associazione bancaria italiana riporta crediti in sofferenza al livello (ufficiale) di 119,8 miliardi di euro in ottobre. PriceWaterhouseCoopers, il gruppo di consulenza, stima in un studio che, dal 2008, le sofferenze bancarie nel Paese sono cresciute a un ritmo del 33% l’anno. Il rapporto di Price è stato scritto per un motivo concreto: la prima conferenza mai dedicata al riciclaggio dei rifiuti finanziari in Italia. Senza dare molta eco all’evento, a settembre scorso banchieri, gestori di «hedge fund» e di fondi di «private equity» si sono raccolti a Banca Ifis a Mestre. Il loro obiettivo era studiare se e come la massa crescente di prestiti andati a male – quella che ostacola il flusso del nuovo credito – possa essere smaltita con i mezzi del mercato. Il punto è capire se gli «animal spirits» del capitalismo sono abbastanza vitali da ricomprare (sottocosto) queste scorie, riciclarle ripulendo i bilanci delle banche, così da ottenere un profitto e intanto permettere al sistema di ripartire. Niente di tutto questo è scontato. Ma soprattutto, resta da verificare se è possibile farlo a un costo accettabile per i milioni di famiglie e imprese insolventi.
In Gran Bretagna, negli Stati Uniti o nei Paesi scandinavi il mercato delle sofferenze bancarie funziona già  a pieno regime. Anche qui sta prendendo piede, soprattutto perché le grandi banche estere cercano di liberarsi dei portafogli ormai inesigibili detenuti all’estero. Di recente Société Générale ha venduto un pacchetto di prestiti concessi in Italia del valore nominale di 1,3 miliardi di euro a Anacap, un fondo di «private equity» di Londra. Poco dopo la spagnola Santander ha ceduto un altro pacchetto da un miliardo a Cerberus, il fondo americano da venti miliardi di dollari al cui vertice operano l’ex vicepresidente di George Bush padre, Dan Quayle e l’ex segretario al Tesoro di Bush figlio, John Snow.
In entrambi i casi, come in molti altri, in gioco sono i cosiddetti prestiti senza garanzie. Non si tratta di mutui per la casa né di fondi per le imprese, ma per la maggior parte di finanziamenti alle famiglie per cure mediche, per l’acquisto di un’auto o di un elettrodomestico o per ristrutturazioni. Le sofferenze su queste operazioni, tutte potenzialmente in vendita, sono ormai arrivate a 14 miliardi di euro in Italia. In totale, circa 1,4 milioni di famiglie sono insolventi su questo tipo di prestiti. Dietro ogni compravendita di portafogli bancari e dietro ogni mossa nel Paese di un grande fondo arrivato dalla City o da Wall Street, ci sono decine di migliaia vicende personali di disoccupazione; per ciascuna di esse, al momento in cui la posizione viene ceduta, si contano già  sette o otto interventi falliti della banca originaria per cercare (invano) di recuperare il credito.
«È un’attività  delicata e molto sensibile» nota Andrea Clamer, responsabile della divisione Toscana Finanza di Banca Ifis. In Spagna, il pignoramento delle case dei debitori falliti ha prodotto momenti di vera e propria rivolta sociale. In Italia, Ifis è fra i pochi soggetti oggi impegnati a comprare dalle banche i prestiti che le famiglie smettono di rimborsare. Di solito l’acquisto avviene a un prezzo intorno al 3% del valore del credito erogato, quindi il «riciclatore» si rivolge alla famiglia indebitata per cercare di recuperare fra il 7 e il 9% della somma. La banca erogatrice si libera di una sofferenza, raggranella qualcosa su una perdita altrimenti certa, e il nuovo soggetto può registrare un profitto. Ma ciò implica un’attività  capillare di telefonate, visite a casa di ogni famiglia in difficoltà , proposte di transazioni e in certi casi pignoramenti di beni.
Ifis sostiene che muove ogni passo prestando attenzione all’impatto sulle famiglie. Ma gli americani di Cerberus, i londinesi di Anacap o gli scandinavi di Hoist sono entrati in questo mercato offrendo prezzi spesso molto alti. Dunque cercano di recuperare di più – e prima – rischiando di mettere sempre più sotto pressione gli italiani indebitati. Per riuscirci si affidano a società  italiane di recupero crediti oggi in piena crescita e disposte a assumere come Fire, la Trc di Roma o Fsb; su di loro, la Banca d’Italia sorveglia con preoccupazione crescente.
Così la catena del credito in insolvenza passa a un altro stadio e dà  da vivere a sempre nuovi soggetti. Per ora però tutto si ferma qui, anche perché nessuno osa comprare mutui inesigibili garantiti da immobili: troppo difficile valutare quanto varrà  una casa a Roma o a Milano tra qualche anno. Se l’Italia vuole attenuare il dramma delle sofferenze bancarie, non potrà  affidarsi solo all’efficienza del suo mercato.
Federico Fubini


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