Spie iraniane contro oppositori Il grande scambio

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WASHINGTON — È il grande scambio di Damasco. Un baratto che sintetizza attori e snodi della crisi siriana. Il regime ha liberato 2.130 prigionieri per ottenere il rilascio di 48 iraniani da parte dei ribelli. Un accordo reso possibile dalla mediazione di Turchia e Qatar, due tra i principali sostenitori dell’opposizione, e dal ruolo dell’Iran, l’alleato di Assad.
La complessa partita è iniziata ad agosto quando gli insorti intercettano i bus con a bordo i 48 iraniani. Loro dichiarano di essere dei «pellegrini sciiti», stessa cosa ripete per mesi Teheran. In realtà  la comitiva è composta da ufficiali dei pasdaran ed elementi della Divisione Qods, l’apparato clandestino incaricato di missioni speciali. Il gruppo fa parte di un contingente più robusto inviato dall’Iran per assistere i siriani nella repressione. Esuli anti khomeinisti forniscono dettagli sui «pellegrini», sul loro ruolo militare, sulla complessa macchina logistica che li ha trasferiti in Siria. Sono come pietre preziose. Hanno un grande valore. Per questo quando i ribelli minacciano di ucciderli pochi ci credono.
I «fedeli» diventano l’oggetto della trattativa con un regime abituato a condurre questi tipi di ricatti — lo ha fatto negli anni 80 in Libano — e invece ora lo subisce. La pressione su Assad è forte perché Teheran non può permettersi di abbandonare gli agenti. Ed allora si sviluppa il negoziato che vede l’intervento decisivo dell’associazione Ihh turca e dell’onnipresente Qatar, Paese che tira molti fili legati ai ribelli. La trattativa, come sempre, segue percorsi tortuosi ma alla fine porta al risultato. I siriani cedono e aprono le celle. Tra i 2.130 liberati — un numero enorme — ci sono anche turchi (forse dei militari) e palestinesi, finiti nelle retate condotte dalla polizia segreta. La lista contiene i nomi di attivisti, militanti, ma anche di 59 donne e adolescenti. Ieri pomeriggio si è consumato l’atto finale con il trasferimento dei «pellegrini» all’Hotel Sheraton di Damasco dove c’era ad attenderli l’ambasciatore iraniano Mohamed Reza Shibani. Per tutti abbracci, baci e un lungo fiore bianco. Per l’opposizione a Bashar, invece, un grande successo propagandistico e la prova che «al raìs stanno più a cuore gli iraniani che i suoi cittadini».
L’essenza della storia è che Assad è ancora al potere — e non vuole cedere — ma se è necessario trovare soluzioni bisogna chiedere alle potenze regionali. Turchia e Qatar da un lato, Iran dall’altro. E probabilmente una via da esplorare è quella iraniana. Teheran può forse convincere il dittatore a trovare un’intesa. Molti, però, sono convinti che non vi sia più tempo. L’inviato Onu Lakhdar Brahimi lo ha detto chiaramente commentando il recente discorso al Paese: «Assad ha perso un’altra occasione e il suo clan è stato al potere troppo a lungo».
Ormai tutti sono rassegnati alla continuazione della guerra, che ha già  provocato 60 mila morti e 600 mila profughi. L’unica speranza è che non si passi a sistemi «proibiti». Usa e Russia avrebbero concluso, il 6 dicembre, un accordo: Mosca si impegna a vigilare sulle armi chimiche siriane e Washington si astiene da qualsiasi intervento diretto. Gli Usa sono molto inquieti — così come lo è Israele — in quanto il regime è sembrato ad un passo dall’uso dei gas contro gli insorti. L’ultima risorsa per rallentare i loro successi.
Ieri i ribelli jihadisti di al Nusra hanno conquistato gran parte della base aerea di Taftanaz. Un successo che conferma la crescita del gruppo guardato con grande sospetto dagli Usa. Il Consiglio nazionale siriano, a sua volta, ha proposto la creazione di un governo nelle «zone liberate», un modo per riempire un pericoloso vuoto di potere dentro il quale accade di tutto. Dal terreno continuano a giungere notizie di massacri e attacchi indiscriminati. Un’intera famiglia di fede cristiana sterminata, una dozzina di persone dilaniate da un attentato a Damasco, altre uccise sotto le bombe.


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