Una geometria assai variabile per non perdere il potere residuo

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Il calcolo è quello di evitare una sconfitta bruciante sia per il Pdl che per la Lega, a cominciare dalla Lombardia dove si vota anche per la regione. Ma per quanto l’intesa somigli tanto alla somma di due debolezze, non va sottovalutata. Risponde alle esigenze elettorali di una legge che premia comunque le aggregazioni. Consente alla Lega di rilanciare le sue velleità  «macroregionali» contro l’unità  d’Italia. E se anche non scommette sulla vittoria, punta ad una sconfitta in grado di condizionare i giochi parlamentari dopo il voto del 24 e 25 febbraio. Ad attrarre due partiti che in un anno e mezzo si erano allontanati l’uno dall’altro è soprattutto il timore di perdere il potere residuo sopra il Po: in quel Lombardo-Veneto e in quel Piemonte dove il centrodestra governa, ma ormai è accerchiato. Pdl e Lega vengono da mesi di guerre interne logoranti, e da una messa in mora delle rispettive leadership. Umberto Bossi è fuori gioco, Berlusconi non del tutto. Ma il fatto che venga presentato come possibile federatore e non come candidato a palazzo Chigi, conferma quanto la sua guida si sia indebolita. È probabile che non gliene importi molto: voleva l’accordo perché ritiene che sia conveniente, e l’ha ottenuto. E anche il successore di Bossi ha fatto lo stesso ragionamento. L’insofferenza dei lumbard duri e puri nei confronti del Cavaliere equivale a quella del Pdl del Mezzogiorno contro l’idea di un nuovo centrodestra padano. In questa fase, tuttavia, le due formazioni non si possono permettere distinguo né scatti di orgoglio. Devono perdere il meno possibile. E sono accomunate sia dall’idiosincrasia verso quella che adesso chiamano entrambe «giustizia a orologeria», con la Lega impigliata in nuovi scandali; sia da un odio antitedesco e anti-Mario Monti, che le spinge a cavalcare tutti i temi cari al populismo eurofobico: si tratti di moneta unica europea, di politica fiscale o di vincoli imposti dalle istituzioni di Bruxelles. Davanti al lombardo Monti e al centrosinistra si sta dunque stagliando un muro lumbard, destinato a fare del presidente del Consiglio uscente l’avversario principale nella caccia al cosiddetto voto moderato. E promette di schierare l’ex premier Berlusconi e l’ex ministro dell’Interno, Maroni su parole d’ordine sempre più radicali: a cominciare da quella di creare «una macroregione del Nord» dopo le elezioni, come promette il nuovo leader del Carroccio; e di tenersi il 75 per cento delle entrate tributarie, senza versarle nelle casse dello Stato. La cosa singolare è che il capo leghista ora candida a palazzo Chigi l’ex ministro dell’Economia di Berlusconi, Giulio Tremonti, anche se i rapporti fra lui e l’allora responsabile del Viminale erano pessimi. Sono i miracoli che la realpolitik impone anche agli avversari apparentemente più acerrimi. Il problema, semmai, è quale sarà  l’effetto di una campagna elettorale «tagliata» su slogan anti-europei e di «rottamazione» delle misure del governo dei tecnici, su un Nord dell’Italia che conosce bene l’importanza di rimanere agganciato all’Ue e di non contraddire gli impegni presi. La prospettiva di avere Piemonte, Lombardia e Veneto in mano a governatori di una Lega in fase di regressione non è molto rassicurante. Un movimento che teorizza il distacco fiscale dall’Italia, un po’ sul modello (perdente) della Catalogna rispetto alla Spagna, solleva molti interrogativi: soprattutto con una crisi economica come questa. Si dirà : molte sono parole più o meno in libertà , figlie di una propaganda che dovrà  tornare a fare i conti con la realtà  dopo l’apertura delle urne. Può darsi. Tuttavia, attenuare la consapevolezza delle sfide che si dovranno affrontare dal 2013 in poi può produrre altre pericolose illusioni; e rendere il compito del prossimo governo, qualunque esso sia, ancora più duro. A meno che l’obiettivo inconfessabile sia proprio quello di creare una situazione di ingovernabilità . Ma dopo l’esperienza fallimentare della riforma federalista, usare il Nord come cavia di un altro esperimento di fatto scissionistico sa di azzardo. Le velleità  leghiste hanno già  tenuto occupato il Parlamento per quasi una legislatura, e fatto perdere tempo. Approfittando della voglia di intesa a qualunque costo del Pdl, il progetto rispunta; e Berlusconi non sembra avere più la forza per arginarlo. È l’ennesimo tentativo del Carroccio di risolvere i problemi di strategia e di identità , scaricandoli sulle regioni più produttive dell’Italia; e proponendo un modello di sviluppo che un tempo, a qualcuno, poteva magari apparire all’avanguardia e rivoluzionario. Oggi, in realtà , serve solo a coprire l’involuzione dei suoi sacerdoti politici.
Massimo Franco


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