Il voto e le tre sinistre

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Ora la posta – pur sempre complessa quando si evocano, magari a sproposito, le memorie di Falcone e Borsellino – è la campagna elettorale e la visibilità  della lista Rivoluzione Civile, che candida a premier Antonio Ingroia, la terza di tre sinistre, dopo quella riformista di governo e quella dei diritti sociali. La forte esposizione mediatica del magistrato neo-leader politico, a capo di una coalizione in cui confluiscono, tra gli altri, Di Pietro con l’Italia dei Valori e De Magistris con gli Arancioni, mostra un volto della sinistra italiana che conferma la natura permanente di un polo incardinato su ex inquirenti e dominato dal tema della lotta alla criminalità  organizzata e alla corruzione politica.
Evidentemente il malcontento di lunghissimo corso nei confronti del ceto politico tende ad aggregare aspettative di giustizia (con talvolta annesso desiderio di vendetta) intorno a figure di arditi procuratori e trasforma in programma politico obiettivi di legalità  che dovrebbero in verità  appartenere fisiologicamente ad ogni partito democratico. Il carattere tendenzialmente monotematico di queste aggregazioni — era vero per l’Italia dei Valori come ora lo è per Rc — le avvicina alle forme, più esplicite, di agitazione antipolitica alla Beppe Grillo, che può però permettersi un repertorio più disinibito di violenza verbale e può incassare più facilmente il profitto da indignazione.
Dunque è improbabile che un risultato elettorale, anche brillante e comunque al di sopra delle aspettative, possa portare la coalizione di Ingroia a un livello proporzionale alla sua visibilità . E tuttavia sembra definitivamente acquisita la presenza di questa sinistra «giudiziaria» (sia pure alleata con gruppi verdi e della vecchia sinistra) accanto alle altre, quelle rappresentate a grandi linee dal Pd e da Sel. Queste sono alleate, ma rappresentano almeno due altre sinistre, che non necessariamente rispecchiano i precisi confini tra i due partiti: la prima è quella riformista, con una vocazione di governo, europeista, pronta a sostenere un programma realistico di intervento sui vizi strutturali della spesa pubblica, della macchina dello Stato, e pronta ad allearsi con i moderati (e anche, nelle versioni più forti, ad occupare il loro spazio, come Blair, come Schroeder, come Clinton…) per fare le riforme necessarie, pagando il prezzo dell’impopolarità  a sinistra, ma recuperando voti al centro e alla destra; la seconda è una sinistra dei diritti, che interpreta in primo luogo come protezione, legittima, dei risultati della socialità  accumulata con il welfare dei decenni passati, è la sinistra del sindacato, è la sinistra che esalta la strada fatta dal movimento operaio e che, davanti alla prospettiva di riforme necessarie e radicali, imposte dalla competizione globale, si mette in trincea: qualcuno la rappresenta come la tenace protagonista di una giusta battaglia difensiva, altri come insensibile verso i giovani, ostacolo al cambiamento, freno che attarda l’Italia su una frontiera persa. Quel che fa la scelta difficile è che c’è del vero in entrambe le versioni.
La prospettiva riformista e di governo era, in verità , quella originaria del Pd. Ha ragione Parisi (uno dei suoi fondatori) nella sua analisi cruda: quella vocazione andava difesa con decisione e purtroppo invece non ha mai trionfato. A complicare il disegno, elegante e chiaro del Lingotto, si sono messe le tentazioni, fin dal principio, di sfruttare i profitti elettorali a breve del polo «giudiziario », già  con Di Pietro, e poi quelli della trincea sociale, non quelli dell’agenda di governo. Il che ha dato luogo a blocchi lungo il cammino che si voleva riformista. Del resto le altre due sinistre, anche se Vendola a dir la verità  fa professione certa di futura disciplina parlamentare di coalizione, sono pronte a mordere, entrambe, sui temi sensibili: i vincoli europei, il fiscal compact, l’articolo 18, le pensioni, la partecipazione italiana a impegni militari internazionali.
Nel gioco delle tre sinistre, rispetto a Veltroni 2008, Bersani 2013 ha decisamente tagliato fuori quella «giudiziaria» (segnando peraltro un punto di molto maggiore peso con la candidatura di Pietro Grasso). L’argomento del «voto inutile» si impone, almeno al Senato, dove la prospettiva per Ingroia di raggiungere l’8% è fuori portata in tutte le regioni, salvo la Campania, il che lo rende matematicamente nullo. Quanto alla sinistra riformista, Bersani pure la rappresenta (meglio, se Renzi gli dà  un mano), anche se qualche pezzo di riformismo è trasmigrato di là , con Monti, più di quanto non sia accaduto il contrario, come voleva la famosa vocazione maggioritaria. Rimane di gran lunga il favorito in una partita, tra le tre sinistre, che continuerà  dopo il voto.


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