Non chiamateli sacrifici

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È ignobile che il pagamento di una bolletta o la rinuncia a raddoppiare una settimana di vacanza siano considerati atti sacrificali. Per smodata esaltazione della figura paterna, la mia povera madre motivava il mio obbligo di gratitudine, con l’imperativo categorico di prepararmi fin dalla prima elementare ad un angelico futuro di ingegnere da cancellate industriali, in quanto mio padre non faceva altro, dal mattino alla sera, che sacrifici per causa mia, senza sufficiente risposta di sottomissione da parte di quel piccolo assassino parricida del suo unigenito. Forse che il brav’uomo avrà  sgozzato tori all’aperto sull’ara della Famiglia? La borghesia, figlia totale del secolo XIX, ha dinamitato e ridotto a maceria l’eredità  linguistica del passato; ma ha sacrificato (immolato, proprio, all’idolo Profitto) più vite umane di quante ne immolarono Aztechi, Toltechi, Incas, Maya, Indios nelle loro ecatombi umane per propiziarsi gli Dei.
Un po’ di anni fa venne ritrovata, in qualche ghiacciaio andino, la mummietta gentile di una vergine sacrificata. L’immagine era in un rotocalco; la cosa avvenuta cinquemila anni fa dopo un’attesa agonica del «momento» adatto durata anni, forse, di reclusione… Quello fu forse un vero sacrificio; ma la sua traccia, sulle rocce, è rimasta come il sangue di Duncano sulla mano di lady Macbeth.
All’inizio del secondo atto del Giulio Cesare, uno dei congiurati propone a Bruto di uccidere, dopo Cesare, qualche suo pericoloso amico.
Cassio nomina Antonio. Ma Bruto nega: solo Cesare deve essere sacrificato: «siamo sacrificatori (sacrificers), non macellai (butchers)». Cito a memoria, il resto della risposta di Bruto è nobilmente contorto. Sappiamo come andò a finire: la macelleria si affaccia brutale nel modo tutt’altro che rituale dell’uccisione di Cesare, e quando Antonio, risparmiato da Bruto, è lasciato libero di parlare ai Romani dai rostri, la grande macelleria suscitata dal suo intervento durerà  fino ad Azio. Tuttavia, vedendosi pugnalare da Bruto, Cesare trasforma la macelleria in atto sacrificale, accettando di morire, di farsi vittima volontaria («Bruto, anche tu? Allora che muoia Cesare»).
Nei roghi di Hus, Vanini, Bruno, dei Catari di Montségur, il consenso delle vittime analogamente trasforma in un vero sacrificio quelle infami carneficine.
In verità , quando uccidiamo – sia la vittima una sola o passi i mille e i diecimila – macellai siamo tutti.
Niente vale a imbiancarci; uccidere è indossare il grembiule del mattatoio. L’agguato è macelleria, il rogo della strega è macelleria, la bomba di via Rasella è macelleria, le stragi staliniane, il bosco di Katyn, la liquidazione della famiglia imperiale sono macelleria; la Shoah è macelleria che non finisce di sanguinare.
Scoronati della loro abietta ritualità , sono macelleria i crimini della banda Manson del 1969, e l’assassinio di Yitzhak Rabin è macelleria, il matricidio di Elettra e quello di Novi Ligure sono macellerie parallele, e Beslan, e Ruanda, e Srebrenica… Uccidere Aldo Moro è macelleria, e Falcone, e Guido Rossa e mandare alla sedia Sacco e Vanzetti senza prove certe esala mattatoio, i suoi grembiuli imbrattati svolazzano dappertutto…
Il senso e la necessità  del sacrificio, amputato però del sacro (das Heilige) li vedrei invece in esecuzione come quelle di Eichmann e di Saddam Hussein. Ma nei lugubri tamburi del 21 gennaio 1793 (Luigi XVI) la macelleria rivoluzionaria fatica a redimersi, e il patibolo inflitto a Maria Antonietta è macelleria criminale di Stato.
Nella simbologia della Messa, la liturgia sacrificale ricorda l’immolazione di secolo in secolo di una Divinità  incarnata; ed è un versamento di sangue perfettamente incruento: niente macelleria; ma gli incolti fedeli si emozionerebbero di più se parroco e vescovo alzassero il coltello su una vittima vivente. E ancora meno comprenderebbe Bruto; non avrebbe, alzando calice e ostia, tolto di Roma il megalurgo Cesare.
Le Idi di Marzo furono di butchery e di cielo oscurato.
Ma gli esborsi di denaro non sono sacrifici; rispettiamo la terribile e veneranda parola. Allorché consentono all’espianto d’organi di un figlio, le famiglie lo sacrificano, non so quanto consapevolmente, in un rito convulso di macelleria chirurgica; nelle angherie di Stato, nelle perdite di capitale, o mantenendo i loro ragazzi all’università  dell’isola di Tonga, non le vedo compiere nessun sacrificio.
Associare come aggettivo lacrime-sangue a qualche sgradito e mal tollerato decreto è macabra e stolida retorica. La bruttura del luogo comune sempre rispunta.


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