ORA METTIAMO UN LIMITE ALLA FABBRICA DI SCHIFEZZE

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La prima volta che qualcuno fa qualcosa che riteniamo inammissibile ci scandalizziamo. Ma se continua, ogni giorno, alla stessa ora, a fare la stessa cosa, possiamo onestamente dirci scandalizzati? Dovremmo. Dovremmo mantenere la capacità  di indignarci. E invece già  in queste ore i commenti sono quasi rassegnati, come se la grande industria alimentare fosse in qualche modo giustificata nel combinare questi pasticci.
Perché in fondo — si dice — siamo noi che glielo permettiamo delegando senza alcun senso critico una funzione cruciale come quella della nostra alimentazione.
E la dimensione delle aziende incriminate fa sì che l’area coinvolta sia ogni volta più vasta. Oggi lo scandalo va dagli Stati Uniti, con gli hamburger di Burger King’s, al Regno Unito, con le lasagne e gli hamburger congelati della Findus. Ma non è detto che sia finita qui. È la globalizzazione, baby.
Lo shock è diffuso e multilivello, perché coinvolge culture — in particolare quella britannica — che considerano i cavalli come esseri complementari all’uomo. Se pensiamo alla rivolta popolare che abbiamo avuto nel nostro paese quando si scoprirono le condizioni in cui venivano tenuti i beagle dell’allevamento di Green Hill a Montichiari, faremo poca fatica a immaginare come avremmo reagito se avessimo scoperto carne di beagle nelle lasagne (a proposito: potrebbe la Regione Emilia Romagna valutare l’ipotesi di costituirsi parte civile in questa faccenda? E con essa tutte le associazioni di “rezdore” e cuochi che fanno del made in Italy onesto la loro seria e faticosa professione?). Non ci sono solo preoccupazioni di carattere legale e salutistico, ma anche di carattere culturale. E se vale tutto, si stanno chiedendo coloro che hanno questioni di carattere religioso a preoccuparli, chi ci dice che in quella poltiglia inqualificabile non ci sia anche carne di maiale?
Insomma, pare che qui non basti nemmeno leggere le etichette per difendersi. Eppure nei banchi del nostro parlamento Europeo siedono illuminati difensori del libero mercato che ogni volta che qualcuno chiede etichette più dettagliate, indicazioni d’origine obbligatorie, insomma ogni volta che qualcuno chiede che le etichette ci dicano davvero qualcosa e non ci abbindolino con informazioni inutili, quando non tautologiche (come l’etichetta dei formaggi, che ci annuncia che sono fatti con latte, caglio e sale, come se il formaggio potesse essere fatto con qualcos’altro), insorgono come se nel novero delle libertà  individuali sancite dalla Magna Charta ci fosse anche quella di non svelare la composizione di un cibo che si pretende di far mangiare a qualcuno.
Quindi che si fa? Il primo pensiero che mi viene è “beato chi sa cucinare”. Chi sa andare dal macellaio, chiedere un determinato taglio di carne, pretendere che venga macinato sotto i suoi occhi e dopo il ragù per le lasagne se lo sa fare a casa sua. Il secondo pensiero è “beato chi ha produttori e ristoratori di fiducia, ai quali affidarsi per essere nutrito con amore e onestà ”.
Il terzo, però, è “che vergogna”. Possibile che non esista un limite a quanto qualcuno può pensare di poter lucrare sulla pelle altrui? Che ignobile umanità  siamo diventati, se si può anche solo pensare di tradire la fiducia dei propri simili, mettendone a rischio i diritti e la salute, per denaro? Ricostruiamo la nostra cultura alimentare e pretendiamo politiche alimentari efficaci, o saremo — sempre di più e sempre più spesso — solo le pattumiere in cui industrie disoneste buttano le schifezze che producono, e per giunta pattumiere paganti!
In uno spot della Findus, il capitano insegna che anche le cose fatte bene possono migliorare. Bene, aggiungiamo a questa stimolante sollecitazione, la certezza che le cose fatte male possono comunque sempre peggiorare. E se possono lo faranno. A noi la scelta.


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